
«Bel risultato dopo 35 anni di carriera finire imitatore!!!», scriveva Verdi all’editore Giulio Ricordi: la lettera, datata aprile 1875, è un vero e proprio scoppio d’ira, che prosegue sullo stesso tono: «Certo che queste ciarle non mi fanno, come non mi hanno mai fatto deviare d’un punto da quello che volevo fare, ché io ho sempre saputo quello che volevo, ma arrivato al punto che sono, sia alto sia basso, posso ben dire: “Se è così, servitevi” e quando vorrò fare della musica potrò ben farla nella mia stanza, senza udire le sentenze dei dotti, e degli imbecilli».
Dotti e imbecilli lo accusavano di wagnerismo, nell’Italia così amata – e mai, credo, così detestata – che, appena compiuta la sua unità, s’avviava a diventar l’italietta delle spropositate ambizioni, dei sogni imperialisti, della rivendicazione ostinata del posto al sole che credeva le spettasse per divino diritto. In quest’Italia, che aveva perso per strada l’idea risorgimentale e romantica, e che aveva visto orrendamente mutarsi l’amor di patria – per cui tanti giovani avevano dato la vita – nello spaventoso mostro nazionalista e sciovinista che per decenni occuperà la scena, il Maestro sentiva di non esser più di casa, di non poter più far musica, per lo meno non in pubblico, per lo meno non in quel momento.
Durerà quindici anni, quel momento, quel silenzio gravido tuttavia d’attesa, che si scioglierà, alla fine, solo quando Verdi avrà sentore d’un cambiamento della situazione, o forse, chissà, d’un suo personale mutamento nel vedere le cose, quando si convinse, insomma e per fortuna, che valesse la pena, infine, di riprendere a far musica e soprattutto a farla rappresentare: così, nella pienezza dei tempi, quasi adempimento di promessa messianica, arriveranno i capolavori della vecchiaia, Otello e Falstaff, ricapitolazione della propria idea artistica e musicale, annuncio potente, da parte dell’ottuagenario ormai sopravvissuto all’epoca sua, di tempi e orizzonti nuovi e ancora inesplorati.
In questo senso, allora, la Messa da Requiem, che andò a comporre e dirigere quasi contemporaneamente alla lettera citata, assume molteplici significati: è, certo, celebrazione d’un grande Italiano, un protagonista del secolo come Alessandro Manzoni; insieme, è pure rievocazione d’un tempo e d’un’età dell’oro, quella romantica e del melodramma, ormai conclusa, non è certo un caso che l’Autore riprenda il materiale scritto anni prima per il fallito progetto della Messa per Rossini.
Del Requiem che inaugura in questi giorni la Stagione Sinfonica del Teatro San Carlo, qui a Napoli, Juraj Valčuha decide una lettura certo personale, che tuttavia non stravolge né le citate intenzioni dell’Autore né il rispetto delle grandi interpretazioni del passato, nutrendosi di grande simmetria e dinamica stabilità agogica, niente affatto rinunciando, ciò nondimeno, a poderosa intensità espressiva, cercando più che altro di trasmettere il senso dell’elaborata costruzione musicale partendo dalle poderose fondamenta su cui poggia la partitura per giungere felicemente ai suoi vertici altissimi.
Così, fin dall’inizio, dall’Introito (Requiem æternam) e dal Kyrie, i due nuclei da cui tutto inizia, separati ma intimamente connessi da sorprendenti legami, Valčuha tratta la melodia funerea e ancestrale del primo come a volersi riconnettere ad archetipi della spiritualità popolare, ad un mondo arcaico e primordiale, elementare nella sua semplice ma profetica bellezza, traducendo, in qualche modo, la spiritualità cristiana in misura adatta anche ai non credenti; nel secondo, il direttore sa trovare la giusta chiave di lettura per ritrovare – e far risuonare in mezzo a noi tutti, improvvisa e felice epifania – echi del mondo verdiano più familiare e più caloroso, nell’intrecciarsi delle voci dei quattro solisti con il Coro.
Lo fa attraverso il metodico rigore che gli è solito, con grande attenzione ai tempi, procedendo senza sbavature, contraddicendo, nella pratica e nell’essenza delle cose, chi è solito parlare di questa composizione come un’opera mascherata da messa, in una costante concentrazione che ha riguardato perfino le pause tra i movimenti, che sono apparse, almeno a chi ascolta, a volte più lunghe del solito (l’inizio è preceduto da uno straordinario tempo di raccoglimento e concentrazione), in una modalità che annette importanza anche ai tempi di sedimentazione, nel passaggio da una ad altra modalità espressiva, a volte brevissime, sì da dar quasi impressione d’un fluire unitario e senza alcuna soluzione di continuità.
Così la fragorosa apertura del Dies Iræ che accompagna i fatidici versi di Tommaso da Celano, resa fin troppo familiare da film, documentari e caroselli, riacquista finalmente anch’essa il suo nobile status, la dignità che le è propria, grazie al prodigio dell’Orchestra, che produce un suono ormai vicino alla perfezione, tanto sincroni e perfettamente ritmici sono i passaggi, grazie al fiammeggiare del Coro, diretto da Gea Garatti Ansini, veramente in stato di grazia: memorabile esempio di perfetta densità timbrica, non avrebbe certo deluso l’Autore, così risolutamente convinto del valore musicale della parola, e qui in modo speciale la parola, il verbo – il latino dalle desinenze sibilanti e dei dittonghi dolorosi – si fa letteralmente carne e sangue.
Il senso di religioso mistero, di malcelato sbigottirsi, di linguaggio mai così privo di mediazioni, tutto santificato al qui ed ora che è così tipico di Verdi, si stempera col gesto sicuro di Valčuha e trova, allora, miracolosa unificazione in una qualche modalità di vigile sensibilità, tutta tesa per l’urgenza e la spinta verso lo straordinario rumoreggiar delle percussioni, da un lato, l’etereo volar degli archi dall’altro. Così le pennellate dolci degli archi nella Lacrymosa si alternano al controcanto degli fiati che disegnano volute nell’infinito, così i tempi, scelti per volutamente spezzare la quasi insopportabile tensione drammatica, come nel Libera me Domine.
Uno straordinario quartetto di solisti, in tutto degno dell’altezza della partitura e dell’importanza dell’occasione d’inaugurazione della Stagione, affianca Orchestra e Coro, già di per sé così eccezionali. Scolpisce, la voce bella, profonda, imponente, di Riccardo Zanellato, un Mors stupebit maestoso e ricco di profetiche suggestioni; l’eleganza tonante del basso, che non è mai costretto a forzare, riesce a donare impressionante, arcano fascino al Confutatis maledictis, fraseggiando con perfezione plastica il Lacrymosa dies illa; il suo Requiem æternam, sul cupo e lontano rimbombare dei timpani non si dimentica facilmente.
Veronica Simeoni ricerca intensamente – e sicuramente trova – nel corso della serata, una misura d’espressione accorta e dolente, disegnando su per i palchi e giù in platea, inflessioni, sfumature, che come in un dipinto di Giorgione inseguono l’inarrivabile perfezione del tono su tono, del colore tonale, che si traduce in ricchezza di colore e d’accorte velature: così, il suo solenne e ieratico Liber scriptus più facilmente trova la corda giusta nell’inesorata chiusa del nil inultum remanebit.
Ottimo anche Antonio Poli, tenore dotato di voce sicura e squillante, dall’eroica baldanza che non è – come spesso purtroppo – posa vuota e volgare, ma esito della concomitanza fruttuosa di studio e naturalezza, che gli fa superare molto brillantemente la prova dell’Ingemisco, lavorando di fino, abbandonando con sicurezza l’approdo conosciuto per il mare aperto.
Eleonora Buratto, infine, si conferma cantante dotatissima d’ottima agilità vocale e di spiccate doti interpretative, che già l’avevano fatta trionfare, qui a Napoli, nei panni di Lìù, Micaëla, Mimì: la sua tecnica perfetta le ha consentito di affrontare il Libera me Domine, la parte che Verdi scrisse per Teresa Stolz, soprano drammatico per eccellenza, con grande incisività, sensibilità, impeccabile emissione, perfetta intonazione. La vigorosa supplica sua, canto dell’acqua e del fuoco, sulla fuga del Coro, va alla fine sfumando nel pianissimo, come eco lontana, ricordando lo spegnersi, tra le voci della terra, d’una poesia d’amore, ambiguo come un vecchio rimorso, esitante come un grido taciuto, irrisolto come un vizio assurdo, a concludere, scevro di fedi e certezze, la laica preghiera verdiana della vita e della morte.