
La ripresa al Maggio Musicale Fiorentino di Les pêcheurs de perles (I pescatori di perle) di Georges Bizet, nell’allestimento berlinese firmato da Wim Wenders, offre l’occasione di interrogarsi non solo sull’attualità teatrale di un titolo periferico rispetto al grande repertorio francese, ma anche sulle modalità con cui l’opera del giovane Bizet riesce ancora a catturare lo sguardo, e l’orecchio, dello spettatore contemporaneo.
Composta nel 1863 per il Théâtre Lyrique, quest’opéra-lyrique reca in sé tutti i tratti dell’orientalismo ottocentesco: una trama convenzionale, un triangolo amoroso intessuto di gelosia e amicizia tradita, una cornice esotica ridotta a pura superficie decorativa. Tuttavia, dietro la patina di maniera, si intravede già quella tensione drammatica e quella ricchezza melodica che faranno di Bizet, dieci anni dopo, l’autore di Carmen. In questo senso, Les pêcheurs de perles è un’opera “di passaggio”, che incarna tanto i limiti di un gusto di moda quanto le potenzialità di un talento in formazione.

La regia di Wenders, qui ripresa da Derek Gimpel, sembra rispondere a questa duplice natura. Lungi dall’insistere sull’esotismo pittoresco, il regista sceglie un’essenzialità visiva che ricorda la rarefazione poetica di certo suo cinema: una scena ridotta a pochi drappeggi e una tenda di blu profondo, costumi atemporali e volutamente neutri, luci di Olaf Freese –riprese da Oscar Frosio – che scolpiscono lo spazio più che decorarlo. Ne deriva uno spettacolo dove il movimento è ridotto al minimo, calibrato con attenzione sul ritmo musicale. I video, però, immagini marine e di spiagge da cartolina, non convincono del tutto, riducendosi a mero didascalismo. D’indubbio fascino, invece, la scena finale del primo atto, quando Leïla si protende sospesa verso un onirico e sognante cielo stellato.
È proprio la musica a guadagnare centralità grazie alla direzione di Jérémie Rhorer. Il giovane maestro francese legge Bizet con passo teatrale e slancio ritmico, privilegiando tempi spediti e una tavolozza timbrica brillante. La sua concertazione rivela una particolare attenzione al fraseggio e alle trasparenze orchestrali: si percepisce la volontà di restituire non solo il languore melodico tipico dell’opéra-lyrique, ma anche le audacie armoniche e i colori orchestrali che nel 1863 potevano suonare arditi. Splendidi i momenti intimi, con arpa e flauto protagonisti, e incisiva la resa delle sezioni corali, in particolare l’invocazione a Brahma, che emerge con forza ieratica. L’Orchestra del Maggio risponde con smalto e precisione, mentre il Coro, preparato da Lorenzo Fratini, supera un avvio incerto e si afferma come vero protagonista collettivo della scena.

Il cast vocale si presenta omogeneo e ben assortito. Javier Camarena offre un Nadir di rara eleganza, rendendo la celebre romanza “Je crois entendre encore” un momento di sospensione estatica. Hasmik Torosyan, Leïla di temperamento e bellezza vocale, affronta con sicurezza la scrittura insidiosa e trova nel secondo atto, con “Comme autrefois”, il suo vertice espressivo. Lucas Meachem si impone come uno Zurga vigoroso, tanto per squillo vocale quanto per intensità attoriale, fino a commuovere nell’aria del terzo atto. Huigang Liu completa il quartetto come Nourabad, autorevole e solido nella sua funzione di custode del rito.
Nel complesso, l’allestimento del Maggio conferma la vitalità di un titolo che rischia spesso di essere confinato al rango di curiosità da repertorio. L’incontro tra la sobrietà cinematografica di Wenders e la lettura brillante di Rhorer ha restituito a Les pêcheurs de perles il suo doppio volto: quello di un’opera ancora prigioniera dei cliché orientalisti ma già capace di vibrare di passioni universali, che trovano nella musica di Bizet un respiro nuovo. Non un capolavoro assoluto, ma un tassello prezioso della storia del teatro musicale francese. Lunghi applausi per la prima.