Una vita per la Musica, Michele Campanella in Concerto

Al Teatro San Carlo il Concerto in occasione del conferimento al Maestro Michele Campanella della Laurea Honoris Causa in Discipline della Musica e dello Spettacolo, presso l'Università degli Studi Federico II di Napoli

Ci sono Concerti che escono dalla consuetudine della regolare e quotidiana programmazione di un Teatro come il San Carlo: non nascono, infatti, per render vario e complesso un cartellone, ricco di spunti, idee e cultura come di artisti, musicisti, geni. Le occasioni di cui parlo derivano, invece, dall’esigenza di celebrare eventi che dalla vita e dalla feriale cultura, cui un Teatro dovrebbe sempre rivolgersi, provengono, compiendo pertanto, la felice idea di santificare quel particolare momento, il percorso inverso a quello consueto, rappresentando, alla fine di questa parabola, il Concerto il momento culminante.

Così, il conferimento della Laurea Honoris Causa in Discipline della Musica e dello Spettacolo a Michele Campanella, avvenuta in aprile da parte del Dipartimento di Studi Umanistici della Università degli Studi di Napoli Federico II, rappresenta l’innesco, la spinta propulsiva per questo Concerto che ieri sera si è tenuto qui a Napoli, al Teatro San Carlo. Quando poi, ed è questo il caso, il musicista protagonista dell’evento sia Michele Campanella e il teatro in questione il San Carlo di Napoli, possiamo star certi che l’occasione celebrativa non sarà, come spesso accade, rigidamente incapsulata nell’elegante e freddo contenitore di una liturgia ritualmente encomiastica ed autoreferenziale, ma, invece, come è stato, occasione in più per far festa, per essere felici insieme, per godere, una volta di più e con maggior pregnanza, della musica che è stata, è e sarà ragione e fondamento di tutta una vita.

Diventa, in una parola, profondo atto d’amore tra l’Artista e il suo pubblico, tra il Maestro e i suoi allievi, nel Teatro che, da sempre, è stato l’ambiente in cui tutto è avvenuto e da cui tutto è partito, per un “napoletano di spirito, di famiglia, di scuola”, entrato per la prima volta qui, da esecutore, nel 1966, giovane vincitore del Concorso Internazionale Alfredo Casella. Di qui, da questo splendido Teatro ebbe inizio la più che cinquantennale carriera del giovane allievo del Maestro Vincenzo Vitale, di qui le scritture per i principali teatri europei e statunitensi, di qui la docenza presso la Cattedra di pianoforte all’Accademia Chigiana di Siena, di qui la passione per Franz Liszt, che lo ha reso uno dei maggiori interpreti del compositore ungherese, con studio e attività culminati nella consacrazione dell’intero anno 2011 – bicentenario della nascita di Liszt – all’amato musicista e nel 2013, alla lunga serie di concerti in tutto il mondo dedicati alle Parafrasi delle opere di Wagner e Verdi, di cui ricorreva quell’anno il bicentenario della nascita, che fecero di Liszt, nel secolo romantico, il primo autentico divulgatore della grande musica, dando la possibilità a tutti, perfino negli sperduti borghi e paesi dove non era possibile portare l’orchestra, di poterne godere grazie solo ad un pianoforte.

Così, il programma di questo particolare Concerto non può che scaturire di qui, dalla felice sintesi della storia della grande musica vissuta attraverso il pianoforte che quella storia attraversa, caricandosi di una maggior valenza che quella di essere semplice strumento, mero veicolo della più astratta delle arti: assurge, quando suonato da così valente esecutore, a segno, icona, metafora della musica stessa, tracciando con sicurezza un itinerario che segna un percorso – parte da Mozart per arrivare a Schubert passando attraverso Beethoven – che diventa storia e divenire della passione umana, rapimento del desiderio, estasi del sublime.

La prima parte è tutta dedicata a Mozart: molti dei brevi brani per pianoforte da lui scritti hanno una genesi piuttosto oscura, non conoscendo le circostanze in cui nacquero. L’Adagio in si minore per pianoforte, K 540 ha tutte le caratteristiche del Mozart maturo: sguardo rivolto ad un orizzonte che si perde nella indefinibilità metafisica, cui fa riscontro una sofferta tragicità ed una sfuggente vaghezza. Un lavoro rivoluzionario, secondo molti, che utilizza lo strumento, come spesso nei lavori del Mozart ormai vicino alla morte, in modo del tutto nuovo e visionario, e che il Maestro Campanella interpreta scegliendo un tono molto intimo e affettuosamente spirituale, permettendo che la musica diventi poesia dell’anima ma, anche, affetto familiare, vicinanza fraterna.

Diverso il caso del Rondò in re maggiore K 485, scritto forse per quale nobile allieva dilettante, visto il carattere brillante che implica una tecnica poco impegnativa, costruita su un unico tema che viene mostrato con sempre nuove chiavi e trame, sì da simulare nostalgia e sincerità, permettendo all’esecutore un qualche tono canzonatorio ed ironico. Del Rondò in la minore K. 511 sappiamo invece che fu terminato da Mozart l’11 marzo 1787, grazie alla data autografa sul manoscritto. Tra le Nozze di Figaro e il Don Giovanni, lo stile di Mozart, di cui è testimonianza questo brano, subiva una metamorfosi verso orizzonti che Wyzewa e Saint Foix non esiteranno a definire, con eccessiva enfasi, “romantici”: in verità questo particolare brano, nell’interpretazione del Maestro Campanella, se da un lato già prefigura Chopin, dando in fondo ragione a costoro, da un punto di vista materico e cromatico si rifà, invece, a Bach, lasciandoci ancora una volta estasiati di fronte all’abilità diabolica di Mozart che riesce, nel microcosmo di una breve partitura per pianoforte, ad evocare universi e storie condensati in perfette miniature, laddove ad altri sarebbero occorse intere sinfonie.

Era comune, tra i musicisti dell’epoca, che erano tutti essenzialmente compositori-esecutori, improvvisare variazioni su un tema proposto dal pubblico: naturalmente queste improvvisazioni erano tali solo in parte, obbedendo invece ad un preciso schema, per cui ogni variazione si sviluppava secondo una diversa modalità tecnica o espressiva, come l’arpeggio con la mano destra, l’incrocio delle mani, il passaggio dal modo minore al maggiore, eccetera. Di Mozart ci sono giunte almeno quattordici cicli di variazioni pianistiche su carta, di cui è certamente emblematico, perché adattissimo ad esser variato, il tema infantile della canzone Ah, vous dirai-je Maman che è alla base delle Dodici variazioni in do maggiore per pianoforte, K 265 (300e); si noti che la canzone di base è conosciuta, con diverso nome, anche in altre contrade, come nei paesi anglosassoni (Twinkle, Twinkle, Little Star) e “in Cina”, come ricorda lo stesso Michele Campanella, dove, “alle prime note del tema delle Variazioni, da me proposte come bis, il pubblico si mise a cantare all’unisono e a battere le mani ritmicamente”, a riprova che, in questi casi, quanto più semplice e conosciuto è il motivo di partenza, tanto migliore il risultato.

Dopo un breve intervallo, utilizzato più che altro per il cambio delle meccaniche (sviluppate dai tecnici Roberto Valli e Luigi Limacchia), del pianoforte gran coda utilizzato per il concerto, che ha consentito al Maestro Campanella di poter riprodurre timbriche e dinamiche diverse a seconda del periodo, barocco e classico in un caso, romantico e moderno nell’altro, la seconda parte si apre con il brano centrale del concerto, la famosa Sonata n. 8 in do minore, Op. 13 “Patetica”, “esemplare perfetto di forma-sonata”, scritta da Beethoven nel 1798, così intitolata dall’editore, con la probabile benedizione dell’Autore; delle 32 sonate per pianoforte composte da Beethoven, solo il Chiaro di luna può contenderle il primo posto in popolarità.

È stata composta nella prima parte della carriera di Beethoven, alla fine del Secolo dei Lumi, in quel periodo in cui si riaffermava il valore delle tradizioni classiche. Il Grave, famoso e impervio, con cui si apre, che porta con sé in dote la virtuale impossibilità d’esecuzione, perciostesso diventa sigillo del grande interprete, come in questo caso, nella stupenda risoluzione del ritmo giambico dell’irta partitura con la naturalezza che deve (che dovrebbe) esser sempre segno distintivo dell’eccellente interpretazione beethoveniana, risolvendo quasi l’insopportabile peso dell’incipit in stile recitativo – perché la naturalezza diventa, nell’uomo, voce – e cadenza poi ineluttabilmente e senza soluzione di continuità nell’Allegro molto e con brio del tremolo della sinistra, che diventa ritmo che sostiene l’inerpicarsi del primo tema cui si contrappone – ancora – la placida, classica cantabilità del secondo. E pure l’Adagio, a ben pensarci, altro non è che lied, purissimo e nobilissimo canto che si leva alto, mentre il Rondò conclusivo, irrequieto, concitato, torna come in un cerchio all’oppressiva e tormentosa smania dell’inizio, interrompendosi un attimo prima dell’applauso.

La colossale Fantasia in do maggiore, Op. 15, “Wanderer-Fantasie”, ultimo brano in programma, fu scritta da Franz Schubert nel novembre 1822 e pubblicata l’anno seguente, dedicata a Carl Emanuel Liebenberg von Zsittin, promettente allievo di Johann Hummel. Il nome della Fantasia, Wanderer, è tratto dal Lied del 1816 con quel nome, con parole di Schmidt von Lubeck, il cui tema è esposto nel secondo movimento, che esprime pienamente la poetica schubertiana, nutrita di meditazione solitaria ed erratica. Agli inizi degli anni ’20 Schubert aveva avuto alcuni significativi successi come compositore, i suoi lavori erano stati pubblicati ed eseguiti con recensioni generalmente favorevoli. La fiducia in se stessi che questo successo ha generato nel giovane compositore è più che mai evidente nell’uso della chiave eroica di Do maggiore nella partitura, che era tra le predilette e studiate di Liszt, che ne scrisse una rielaborazione per pianoforte e orchestra.

Non per nulla questa composizione è da sempre sinonimo di grande difficoltà tecnica e interpretativa, territorio riservato ai pianisti che sono entrati nel Gotha del concettismo internazionale. E Michele Campanella non delude le aspettative, mettendo la sua tecnica impeccabile al servizio di questa pietra miliare della storia della musica pianistica, cercando e trovando la quadra tra virtuosismo e antiesibizionismo così tipici di Schubert, nella piena consapevolezza dei propri mezzi e del compito affrontato e, sicuramente, vinto. Segnano, i lunghi applausi finali, la fine del Concerto, non certo del rapporto dell’Artista con il suo pubblico, col quale sa trovare la verve giusta per scherzare e dialogare, accennando alla “partita” che incombe e concedendo il bis, “uno solo, naturalmente, ma «tosto»”.

E “tosto” è certamente, e corposo ed espressivo il Totentanz, parafrasi del Dies irae del “suo” Franz Liszt – finalmente –, nella trascrizione per pianoforte solo (S 525), affocato e nero, pura luce che illumina un universo altrimenti tenebroso, ispirato al Trionfo della Morte nel Camposanto di Pisa, danza macabra che «non è una piacevole e divertente pittura di genere, ma un pezzo di carattere serio ed espressivo, il cui contenuto poetico va molto al di là dei limiti delle variazioni da concerto». Non per nulla, alla prima esecuzione, avvenuta il 15 aprile 1865, all’Aja, al pianoforte sedeva Hans von Bülow, a cui, “con la massima stima e riconoscenza”, il brano è dedicato: conclusione perfetta per un incontro entusiasmante con l’arte pianistica, attraverso un eccelso interprete.

PANORAMICA RECENSIONE
Solista
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una-vita-per-la-musica-michele-campanella-in-concertoConcerto <br>Pianoforte, Michele Campanella <br> <br>Wolfgang Amadeus Mozart <br>Adagio in si minore per pianoforte, K 540 <br>Rondò in re maggiore per pianoforte, K 485 <br>Rondò in la minore per pianoforte, K 511 <br>Dodici variazioni in do maggiore per pianoforte, K1 265 (K6 300e) sull’aria “ Ah, vous dirais-je maman” <br> <br>Ludwig van Beethoven <br>Sonata n.8 in do minore per pianoforte, Op. 13 “Patetica” <br> <br>Franz Schubert <br>Fantasia in do maggiore per pianoforte, Op. 15, D. 760 “Wanderer-Fantasie” <br> <br>Durata: 1 ora e 40 minuti circa con intervallo <br>Napoli, Teatro San Carlo, 28 novembre 2018