
Sono passati quasi settant’anni da quel 1949 in cui George Orwell diede alle stampe la più famosa delle moderne distopie, il romanzo 1984 citato a proposito e a sproposito ogniqualvolta si parli del potere e delle sue deviazioni, del suo connaturato tentativo di oltrepassare il limite, diventare assoluto, anche attraverso mezzi non leciti. L’universo di 1984 nasce portando alle estreme conseguenze le tensioni, le nevrosi, le paure degli anni quaranta, dell’umanità uscita da due terribili guerre che avevano minacciato di distruggerla per sempre: le nuove tecnologie, i mezzi di comunicazione, le invenzioni del genio umano non sono state usate per vivere meglio, ma per occultare, manovrare, uccidere.
Alla fine, piuttosto che costruire ponti, l’uomo si è trovato costretto entro muri e cortine di ferro, che proteggono e nello stesso tempo imprigionano. Matthew Lenton, regista britannico dei migliori, autore dell’adattamento e della traduzione insieme con Martina Folena, mette in scena quel famoso romanzo, in questa pièce che porta lo stesso titolo, e che in questi giorni è in scena al Teatro Bellini di Napoli, operazione che, come sempre in questi casi, pone chi la fa di fronte ad alcune scelte basilari, soprattutto quando il romanzo sia molto conosciuto, si parli, spesso, pur senza averlo letto, dei suoi contenuti (o presunti tali), come se facessero parte di una sorta di humus culturale in cui siamo tutti bene o male immersi.
La scelta di Lenton è stata di estrarre dalla vicenda narrata alcuni episodi chiave, importanti per dar corpo e compiutezza al racconto, comprensibili, cioè, e manducabili anche da chi, fra il pubblico, non avesse mai letto il romanzo, ma che fossero anche significativi dal punto di vista drammaturgico e riuscissero inoltre a trasmettere, in uno con il filo narrativo, anche un portato, per così dire, ideologico, così importante in casi come questo.
L’idea di introdurre una figura come quella del “narratore”, affidata a Nicole Guerzoni – alla fine sicuramente, fra gli attori, quella che ha offerto la prova più significativa – si è dimostrata, alla lunga, senz’altro vincente: in sgargiante camicia rossa, dunque in netto contrasto con i neri o i grigi degli abiti dei personaggi (creati da Gianluca Sbicca), seduta ad un tavolino all’uno o all’altro margine del proscenio, spesso scrive mentre parla, accreditando perciostesso la personificazione dell’autore, assurgendo tuttavia anche, talvolta, a diventar coscienza del protagonista, forse personificazione, in carne e sangue, di quello Spirito dell’Uomo che il protagonista Winston Smith (il giovane Luca Carboni) evoca alla fine, nel drammatico colloquio finale col suo torturatore O’Brien (Mario Pirrello), finendo perfino, in certi altri frangenti, a somigliare ad una sorta d’angelo custode, accompagnatore partecipe e premuroso dell’uomo che gli è affidato.
Per quanto riguarda, invece, le coordinate spaziotemporali del racconto, il regista rispetta la storia e la geografia orwelliane, senza alcun tentativo d’aggiornarne regole, collegamenti, costrutti. Se mai, lascia all’invenzione d’una sorta di prologo – tre attori che entrano in scena a luci ancora accese in sala, prima dello spettacolo, improvvisando una specie di dibattito proprio sul valore di quel romanzo nella nostra contemporaneità, in mezzo ai social, alla nuova comunicazione, ai nuovi asservimenti, ai moderni e inusitati poteri cui Orwell non poteva pensare – il compito di discretamente suggerire, per allusive concordanze procedendo, paralleli con il dispotico quotidiano, che nutre l’ipertrofico presente del rabbioso e depresso uomo medio contemporaneo, a fronte della smemoratezza del passato e della costrizione del futuro nell’ambito aureo della fiaba.
Confesso di aver provato perfino una punta d’imbarazzo, comune a quello, sincero o ben simulato, degli attori, nell’assistere a quella che mi sembrava una disforica protesi a bella posta fuor di luogo cresciuta; poi, tuttavia, a spettacolo finito, non ho potuto fare a meno di apprezzare quella sorta di (non) improvvisato avanspettacolo che, invece, provvidamente preparava a quello che avremmo visto dopo, offrendo a chi sedeva in platea, in modo subliminale, materia di riflessione, cercando e trovando assonanze e corrispondenze col vissuto nostro, in apparenza troppo lontana da quella di Orwell, nutrita di timori nucleari e cortine di ferro, in sostanza, invece, così attuale nell’attribuire “solo alla conservazione della memoria, al senso di continuità con il passato… valori d’antidoto all’alienazione incombente”, perché “chi controlla il passato controlla il futuro, chi controlla il presente controlla il passato”.
Così, tanto del nostro presente, le falsificazioni della storia e/o della cronaca cui ci stiamo per pigrizia abituando, le false speranze di floridi futuri alimentati da scaltri affabulatori, il relegare la solidarietà umana nel limbo ridicolo delle giovanili illusioni, non solo entrano agevolmente a far parte dell’immaginario orwelliano, ma diventano – per chi abbia occhi per vedere e orecchie per sentire – prodromi d’un aggiornato totalitarismo prossimo venturo, promesse d’un universo in cui “un pezzetto di vuoto” potrebbe riempirsi dentro “per diventare verità assoluta, un momento in cui due più due avrebbero potuto fare tre o cinque, a seconda di quanto era necessario”. È buio quanto basta, allora, il mondo di Orwell ricreato sulla scena da Lenton con la complicità della matita di Gaia Buzzi, illuminato solo da due rettangoli di cui la luce fredda e cruda e abbagliante descrive i contorni.
Il primo è sempre acceso, più piccolo, sul fondo del palcoscenico: ad un tempo, è l’occhio del Grande Fratello – compare, di tanto in tanto, non sapresti dire se umano o virtuale, a ricordarti lo sguardo posato sui protagonisti che agitano la scena – ma anche luogo dove avvengono episodi particolari della vicenda – la bottega della robivecchi che poi lo tradirà (Eleonora Giovanardi), la stazione di polizia subito dopo l’arresto dove incontrerà il collega Parsons (Andrea Volpetti) denunciato dalla figlia bambina – e poi, sorprendentemente, scientemente, significativamente, specchio in cui, a tratti, per sapiente inclinazione delle luci (di Orlando Bolognesi), si riflettono le ansie degli uomini, ma anche le speranze o le contraddizioni, come alla fine della scena della tortura, quando alla figura del protagonista riflessa dallo specchio, si sovrappone, dietro lo schermo, quella di Julia (Aurora Peres), perché il Grande Fratello, sembra suggerire il regista, non può esercitare alcun potere se non quello riflesso da noi stessi, emanato da noi, fermamente voluto e confermato da noi.
Il buio assoluto e quasi dotato di corporea sostanza avvolge le figure, crude anche nella loro chiara e splendente nudità, senza mediazione di grigi misericordiosi, diventa metafora dello stesso universo di un possibile futuro, oscuro come la menzogna che oblitera la verità, come la violenza che necessariamente ne discende, come le parole che esprimono concetti astratti che necessitano di cancellazione dal vocabolario, nel rincorrersi felice e tragico del sarcastico contrappasso orwelliano, in cui, come nell’Inferno dantesco, le parole stesse esprimono grottescamente la verità contraria, o, meglio, entrambi i significati contengono, negandoli a un tempo, perché “la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”.
E poi il buio, ne abbiamo ferma intuizione solo alla fine, è anche il fondo oscuro su cui si muovono i protagonisti, come lo schermo nero d’un gigantesco, inverosimile monitor: l’abbiamo detto, due sono i rettangoli di luce; se il significato del primo è ovvio, e l’abbiamo descritto, il secondo, che corrisponde alla quarta parete, si accende e ci abbaglia solo per qualche attimo, durante qualche cambio di scena: rappresenta la cornice, quest’ultima, dello schermo più grande, attraverso cui vediamo l’intera vicenda con occhio onnisciente, posiamo il nostro sguardo sull’intimità dei corpi e delle menti dei personaggi, ne scrutiamo e ne giudichiamo azioni e pensieri.
Siamo noi, il Grande Fratello, noi seduti nelle nostre comode poltrone rosse del bel Teatro Bellini – nella scena finale anche il “narratore” viene arrestato e finalmente zittito, e i poliziotti in tuta vengono inequivocabilmente dalla platea – noi che torneremo alla comodità ovattata delle nostre case probabilmente senza consapevolezza della verità ormai offesa e brutalizzata, attenderemo ai nostri giochi virtuali in cui appassionatamente tifare per questa o quella fazione, attraverso una tastiera e un account, sentendoci “assolti”, come un troppo lontano poeta genovese diceva chissà quando, cantando una canzone di una dimenticata rivoluzione, mentre invece siamo colpevolmente, inesorabilmente, disperatamente “lo stesso coinvolti, per sempre coinvolti”.