
Significativo, il Concerto di stasera al Teatro San Carlo di Napoli, che mette insieme due rilevanti interpreti del mondo musicale contemporaneo, il pianista irlandese Barry Douglas, alla sua terza sortita napoletana, e il direttore d’’orchestra francese Julien Masmondet, che invece debutta sul podio del Massimo napoletano. Il pubblico partenopeo ha potuto vederli, con gran soddisfazione, impegnati in due pagine che, a modo loro e ciascuna per diversi motivi, hanno segnato il modo di far musica, all’inizio di due secoli diversi, quello romantico, l’uno – il Quarto Concerto di Beethoven che porta in testa quel particolarissimo tema per la prima volta affidato al pianoforte, piccola, grande, non ultima rivoluzione dovuta al genio dell’Autore – l’altro, all’inizio del secolo breve, il poema sinfonico di Zemlinsky nato nel nome d’una delle più tristi e famose fiabe d’Andersen, Die Seejungfrau, la Sirenetta che per amore volle, e ne morì, cambiar la natura di se stessa e delle cose.
Nate entrambe, tuttavia, e concepite, queste pagine, è il caso di notarlo, nella più fascinosa delle capitali europee, la Vienna asburgica crogiolo di diverse culture ed emblema, se volete, d’una complessa concezione dell’alterità e dell’inesausto desiderio di perenne rinnovamento, concepite, non sarà un caso, l’una, quella neoclassica che precorreva già modi romantici, cogliendo l’attimo della nascita d’un Impero, l’austriaco – che era stato proclamato nel 1804, due anni appena prima dell’esecuzione del Concerto, al Theater an der Wien – l’altra, quella Sezessionstil che scopre in sé, invece, e con sgomento, vaghi e impronunciati echi della pantonalità seriale che verrà, presentata sull’orlo del drammatico tramonto di quello stesso Impero. Sottili rifrazioni e impensati rimandi che riguardano anche i musicisti di stasera.
Così, il francese Julien Masmondet, nato a Parigi nel 1977, ha studiato composizione e direzione d’orchestra all’Ecole Normale de Musique de Paris “Alfred Cortot”, dove si è diplomato in direzione d’orchestra nel 2002 con Dominique Rouits. Si è in seguito perfezionato con Yoel Levi alla Royal Academy of Music di Londra e in Israele, nonché con Banjamin Zander al London Master Classes. Oltre a tre stagioni in cui è stato assistente di Paavo Järvi all’Orchestre de Paris, collabora attualmente con diverse prestigiosi direttori come Louis Langrée, Herbert Blomstedt, Christoph von Dohnanyi, Yutaka Sado, David Zinman e Bertrand de Billy. Dal 2005 è Direttore artistico del “Festival Musiques au Pays de Pierre Loti” a La Rochelle. La sua programmazione è basata sull’associazione tra musica e letteratura, nella convinzione che l’aspetto pedagogico e di condivisione abbia somma importanza nella sua professione: di qui lo sforzo di rivolgersi ai giovani, attraverso specifici progetti, e ai meno fortunati, attraverso una fitta serie di concerti in carcere e a beneficio di gruppi svantaggiati.
Barry Douglas, invece, è nato a Belfast il 23 aprile 1960, ha cominciato a studiare pianoforte, violoncello, clarinetto e organo a Belfast, al Methodist College, poi, a 16 anni, ha proseguito con Felicitas LeWinter, allievo di Emil von Sauer e nipote di Franz Liszt. A Londra ha studiato con John Barstow per quattro anni e in seguito privatamente con Maria Curcio, ultima allieva di Artur Schnabel, proseguendo poi gli studi con il pianista russo Yevgeny Malinin a Parigi. Ha vinto la medaglia d’oro al Concorso internazionale di Čajkovskij nel 1986, il primo pianista non russo a riuscire nell’impresa dopo l’exploit di Van Cliburn nella prima edizione del 1958. Nel 1999 ha fondato l’orchestra da camera Camerata Ireland per celebrare e coltivare il meglio dei giovani musicisti irlandesi. Oltre alla ricerca dell’eccellenza musicale, uno degli obiettivi dell’orchestra è promuovere il processo di pace in Irlanda promuovendo il dialogo e la collaborazione attraverso i suoi programmi di educazione musicale. Momenti salienti delle passate stagioni sono stati il debutto di Camerata Ireland ai BBC Proms di Londra e una prima mondiale di una nuova cantata commissionata da The Honorable The Irish Society, ” A Sixes and Sevens “, a fianco della London Symphony Orchestra per celebrare Derry-Londonderry diventando City of Culture 2013.
Entra solitario, il pianoforte – e già questo s’annuncia di per sé, se non assoluta novità, visto già nel Mozart del Concerto K271, tuttavia foriero d’inusitate innovazioni – con un tema d’inconsueta, singolare melodia, costruita com’è su suoni ribattuti che aspirano insieme, e contemporaneamente, al moto e alla quiete, sorprendente ossimoro che svela uno scenario musicale romantico e squisitamente pianistico. L’entrata degli archi risponde facendo eco, riprendendo il tema, portandolo a compimento in uno smagliante dialogo che si allarga ai fiati e di lì all’intera orchestra in un crescendo che va deciso verso un accordo generale che segna il passaggio del secondo tema, perfetto complimento del primo, dalle linee slanciate e il sorprendente ritmo quasi marziale.
È l’inizio del Quarto Concerto di Beethoven, a ragione salutato al suo apparire come «il più ammirevole, il più singolare, il più artistico e difficile di tutti quelli che Beethoven ha scritto», giudizio che non è cambiato nel tempo, visto che quando qualcuno chiese ad Arthur Schnabel, fra tutti i concerti in repertorio, qual fosse il più difficile, indicò questo senza esitazioni, specificando che, dopo aver suonato le prime fragilissime e splendenti cinque battute, il pianista aveva tutto il tempo dell’esposizione orchestrale per disperarsi al pensiero di come avesse suonato male. Ma, al di là delle battute, è difficile, per noi che viviamo la nostra contemporaneità, soffrendo dell’incolpevole miopia che appiattisce in un fondo indistinto l’intero, troppo distante, passato, è arduo, dicevo, renderci conto dello stupore che dovette provocare, nell’unico momento d’alta drammaticità di questo movimento, la ripresa del primo tema da parte del pianoforte, quando Beethoven, forte delle nuove capacità tecniche dello strumento, ne sfruttò appieno l’incredibile risonanza del suono, che trova poi piena apoteosi nella lunga cadenza.
E tuttavia Douglas ottiene, combattendo e vincendo un’impari sfida contro la nostra insipienza, di dar peso e sostanza, rilievo e grandezza a quell’incredibile suono, riuscendo a rendere almeno l’idea dell’attonito stupore di quella sera viennese del dicembre 1808; sfida che continua, naturalmente, senza soluzione di continuità, si direbbe, con l’Andante con moto del secondo tempo, ispirato all’Autore, dicono alcuni, dal mito d’Orfeo che, scendendo agl’Inferi per recuperar sua moglie, avrebbe col suo canto placato le Furie. Non sappiamo se questa immagine corrisponda al vero, quel che è certo è che, mentre l’Orchestra s’impegnava, guidata dal direttore Masmondet, nelle rudi asprezze degli archi, se ne usciva, il suono di quel pianoforte nelle mani di Douglas, con la leggerezza e il terso ascendere d’un autentico, poetico canto alla vita, per donarci, verso la fine, inaudite, irrequiete sollecitazioni cromatiche che sembrano appartenere alle inquietudini novecentesche più che alla pacificata rotondità neoclassica.
E continua ininterrotto, il serrato dialogo con l’orchestra, quasi un reciproco accudirsi, accogliersi e cullarsi, con lo stupendo terzo movimento, apoteosi e splendore che trova degna conclusione nell’entrata esplosiva e trionfale di trombe e timpani, in silenzio e attesa per tutto il concerto. Alla fine, il musicista irlandese cede alle richieste del pubblico e concede il bis, crediamo di aver riconosciuto, salvo errori, una piccola gemma che ben s’accorda, a ben vedere, con le suggestioni della serata, un Brahms non scontato e non banale, il Brahms che non t’aspetti, di cui Douglas è raffinatissimo interprete: fra le Sette fantasie opera 116, scritte con affetto e struggimento, presagendo, all’apice del successo e della fama, la fine ormai prossima, la quarta, l’Intermezzo in Mi maggiore, scelta per chiudere il suo intervento napoletano, è di certo la più intensa, la più intima, fors’anche quella che maggiormente splende d’insolita luce impressionista quasi debussiana.
La vicenda sfortunata della Sirenetta di Hans Christian Andersen, una delle favole più cupe e terribili dello scrittore danese, che ispirò Alexander Zemlinsky per il suo poema sinfonico Die Seejungfrau (La sirenetta, appunto), non solo ostenta le stigmate, evidentemente, d’una sorte avversa, ma in qualche modo segnò perfino la vita di questo musicista, che fu infelice e sfortunato. Composta tra febbraio del 1902 e marzo del 1903, quando l’Autore aveva circa trent’anni, volutamente mostra i segni di un notevole tormento interiore: in una lettera a Schönberg scrive che «Sto lavorando sodo ad un poema sinfonico La vergine del mare di Andersen [Das Meerfräulein, titolo provvisorio, evidentemente], destinato ad essere un lavoro preparatorio per la mia sinfonia Della morte».
La Sinfonia dal terribile titolo non fu più scritta, ma è rimasto, certo, un afflato di oscuro pessimismo, nell’opera, stemperato dal poetico lirismo della vicenda. Né andò meglio, comunque, alla prima: lo stesso Zemlinsky diresse a Vienna la prima esecuzione il 25 gennaio 1905, tuttavia l’interesse di tutti era alla seconda metà del concerto, l’ultima novità di Schönberg, il Pelleas und Melisande. Alma Mahler, allieva di Zemlinsky, come Schönberg, del resto, annotò nel diario: «26 gennaio. Ieri concerto: Zemlinsky-Schönberg. La mia previsione è stata confermata. Zemlinsky, nonostante molte trovatine splendide e la sua enorme capacità, non è forte come Schönberg, che è un tipo confuso ma estremamente interessante. La gente se ne andava a frotte e sbatteva la porta durante l’esecuzione, molti fischi ma per noi due il suo talento è evidente».
L’opera, dimenticata, non fu più eseguita, se ne perse anche il primo episodio, fino al 1976, in cui si ricostruì il poema sinfonico e al 1984, in cui fu finalmente rieseguita, per diventare il lavoro più conosciuto dello sfortunato musicista austriaco. E certo – come appaiono lontani, quei tempi e quelle polemiche, appiattite sullo sfondo, come si diceva prima, per effetto della lontananza – il titolo e il dichiarato intento che detta l’ispirazione autorizzerebbero a pensare a quel che si chiamava, appunto con una certa carica polemica, musica a programma, Musik als Ausdruck, in cui la musica ha una funzione illustrativa rispetto, in questo caso, alla parola e alla poesia, contrapposta allo sviluppo di forme, tönend bewegte Form, musica che basta a se stessa, Arte che non ha bisogno di appoggiarsi ad altro che a se stessa. Per Zemlinsky, pur se l’ispirazione per la Seejungfrau gli viene dall’impressione per Ein Heldenleben, è a Mahler, nonostante tutto, che poi guarderà, ad una forma musicale, cioè, conforme al dirompere pieno dell’ispirazione poetica, lasciando da parte ogni intento illustrativo senza rinunciare alla potente e piena trasfigurazione della propria interiorità.
Così, anche nella Seejungfrau la musica ribadisce il suo pieno valore di più astratta delle arti, seguendo esclusivamente, nel suo necessario evolvere, una logica puramente musicale, legata solo per grandi linee al tema, al racconto, alla parola di Andersen. Allora, è ben possibile osservare come, nel corso dei tre tempi canonici in cui è sepimentata la partitura, si assista ad un continuo confronto – e talvolta scontro – melodico e timbrico, di tematiche impersonali, legate alla natura, e di tematiche emozionali, legate invece al personaggio della Sirenetta, servendosi anche dell’uso, abile e disincantato, dei leitmotiv, come quello della Sirenetta, annunciato dal suono appassionato del violino solista di Cecilia Laca. Ma, certo, è tutta la compagine del San Carlo, a conferma della grande crescita di questi ultimi anni, che perfettamente sa rendere, con smalto lucido e vivido e suono nitido e terso l’inquieto confondersi dei temi incrociati, delle infinite modulazioni – ben oltre le “trovatine splendide” di Alma Mahler – sotto attenta e precisa direzione, a prova della magistrale capacità tecnica del direttore Masmondet, che alla fine, fra grandi applausi, rende omaggio, dovuto e sincero, ad ogni solista e ad ogni sezione della nostra Orchestra.