
Felipe Pedrell, compositore, folklorista, editore e direttore artistico, da molti considerato il padre della musicologia spagnola, in un lungo articolo intitolato “Gustav Mahler. El hombre y el artista”, tracciò anche un giudizio critico estremamente positivo della Sesta Sinfonia di Gustav Mahler, che sorprende per la sua lungimiranza, visto che fu scritto in un’epoca, contemporanea alla composizione, in cui la partitura veniva denigrata praticamente da tutti; in particolare, riuscì a cogliere l’essenza dell’opera: “…in tutta la partitura risalta un accordo simbolo, l’accordo maggiore trasformato in minore, trasformazione tecnica, semplice, la più comune che ci possa essere, ma che, nelle mani del grande evocatore produce il brivido dell’ispirazione…”.
Ecco. Juraj Valčuha dirige l’Orchestra del suo Teatro San Carlo, rimpolpata a dovere per l’occasione, sì da produrre un volume di fuoco in tutto degno di una partitura che Richard Strauss definiva, non a torto, überinstrumentiert. Ma dirige come forse – mi piace immaginare – doveva farlo il Mahler richiestissimo e valentissimo gran direttore, svuotato d’ogni enfasi, privo di qualsivoglia ombra di retorica inutile e vana, sobrio nella felicità del gesto che vive di compostezza e misura. La Sesta, dunque, l’Unica Sesta, la Tragica. La Sinfonia che secondo tanti, Alma Mahler in testa, anticipa le tragedie che di lì a poco si abbatteranno sulla famiglia del compositore, che vive dunque quelle due estati del 1903 e 1904 come serenissimi momenti di pace familiare.
Ricorda infatti Alma, nei suoi scritti, «quell’estate bella, felice, senza conflitti. Alla fine delle vacanze Mahler mi suonò la Sesta Sinfonia, ormai completa. Dovevo rendermi libera da tutti i lavori di casa, aver molto tempo a disposizione per lui. Salivamo di nuovo a braccetto nella sua casupola nel bosco, dove eravamo sicuri di non esser disturbati, in mezzo agli alberi. Tutto ciò si svolgeva sempre con grande solennità. […] Dopo aver abbozzato il primo tempo, Mahler era sceso dal bosco e aveva detto: “Ho tentato di fissare il tuo carattere in un tema – non so se mi è riuscito. Ma devi lasciarmi fare”. È il grande tema pieno di slancio del primo tempo della Sesta Sinfonia. Nel terzo tempo descrive i giochi senza ritmo delle bambine che corrono traballando nella rena. È spaventoso: le voci infantili diventano sempre più tragiche, e alla fine non resta che una vocina lamentosa che va spegnendosi.
Nell’ultimo tempo descrive se stesso e la sua fine o, come ha detto più tardi, quella del suo eroe. “L’eroe che viene colpito tre volte dal destino, il terzo colpo lo abbatte, come un albero”. […] Nessun’opera gli è sgorgata tanto direttamente dal cuore come questa. Piangevamo quella volta, tutti e due, tanto profondamente ci toccava questa musica e quel che annunciava con i suoi presentimenti. La Sesta è un’opera di carattere strettamente personale e per di più profetico. Tanto con i Kindertotenlieder che con la Sesta Mahler ha messo in musica “anticipando” la sua vita. Anch’egli fu colpito tre volte dal destino e il terzo colpo lo abbatté. Ma quell’estate era allegro, cosciente della grandezza della sua opera e i suoi virgulti erano verdi e fiorenti».
Dimentica, Alma, che alla musica di Mahler non s’addice alcun “programma”, dimenticano, i profeti di sventura, che questa musica rifugge ad ogni schema facile e prevedibile: non ci sono (più) Eroi, in questo Universo che pericolosamente cammina sull’orlo dell’orrido, le sue marce accompagnate dalle ossessive percussioni di timpani e campanacci non segnano (più) il tempo di battaglioni di soldati in lotta col male, i gran colpi di martello che, puntuali come la morte, vengono teatralmente calati come l’ascia del boia, ci porterebbero inevitabilmente fuori strada se li pensassimo legati ad un qualche oscuro presagio personale, essi si abbattono fragorosamente sull’umanità tutta, fino a provocarne la fine, e Mahler sapientemente sa condurci fino al limite massimo del parossismo, per poi ripiegarsi sfinito, desolato, in un modo minore che è il consumarsi silente e tragico della morte della speranza.
Allo steso modo sa portarci, Valčuha, tenendoci per mano come avrebbe potuto fare Mahler con le sue bambine, attraverso l’Allegro energico, ma non troppo del primo tempo: nella salda immobilità delle tre classiche sezioni della forma sonata, germogliano inquiete creature che, fiere e libere della loro assoluta, conquistata sovranità, scorrazzano conquistando lo spazio e il tempo.
Così, sembra scaturire dall’accenno di mano del direttore il tempestoso, primitivo ritmo marziale che si costruisce sulla scansione delle percussioni, perfette, grazie agli esecutori, come il tempo che le ha generate, che scende nell’abisso per poi risalire e risolversi in attesa, come in lunga trance, d’un evento arcano: la liricità festosa e piena dell’Alba Theme che si apre per poi interrompersi, per poi tornare e tornare ancora, come il mare, come le stramberie della vita, che sanno nutrirsi pure dei suoni e dell’onomatopeia delle piccole cose di pessimo gusto, i campanacci delle camminate per sentieri alpini, echi frammentati di Jodeln, tutto un tessuto musicale fatto di richiami e voci, sussurri e implorazioni che, poi, precipitano verso la conclusione che apre al secondo movimento.
Mahler fu molto titubante, ancora in vita, circa l’ordine dei due movimenti centrali, suggerendo, probabilmente, che entrambe le soluzioni avessero la loro validità, rimettendo all’esecutore postumo il giudizio sull’opportunità o meno di arrendersi prima all’abbandono lirico e, quindi, successivamente, lasciare che la follia ambigua e incalzante dello Scherzo apra all’Allegro moderato del Finale: Valčuha opta per questa soluzione, lasciando quindi che la musica ci conduca nell’oasi quasi raveliana dell’Andante moderato, nell’intarsio dell’assolo del corno inglese sul moto generato dall’arpa, parentesi malinconica, quasi svigorita, cui l’assolo del violino di Cecilia Laca dona nostalgia e inquietudine.
Lo Scherzo, tuttavia, incombe, e Valčuha, con la sua Orchestra, vince la scommessa che gli fa preferire – scelta che considero di grande modernità e attenzione alla contemporaneità – un Mahler volto più alla deformazione espressionistica della realtà che non alla sua trasfigurazione esausta e postromantica, più sobrio che enfatico, più anticipatore, per certi versi, dell’atonalità che ultimo emulo d’un wagnerismo ormai artificioso. Salva, allora, l’equilibrio del gesto di Valčuha, lo Scherzo, dallo scadere, come purtroppo spesso accade, in maniera, in esaltazione dell’obliquo e del torbido, per restituirlo, intatto, invece, al canone dell’ironia, dell’intelligenza, della lucidità, cui appartiene; ove mai s’è visto un direttore che, eseguendo Malher – e la Sesta di Malher – non si sbracci e non si torca sul podio, “preso” dalle inesorabili volute della musica?
Soprattutto apre, in tal modo, lo Scherzo, al Finale, pezzo di estrema complessità che il direttore slovacco risolve da par suo, perché tutti i fili del tessuto finora abbozzato giungono ora alla resa dei conti, dopo aver accumulato tensione e tensione, e tuttavia stentano a risolversi, i contrasti non si appianano, non è più tempo di sintesi classiche ed olimpiche, la tragicità che dà il nome all’opera trova qui ed ora il più vero significato, nell’impossibilità, cioè, di cercare e rintracciare, in questo mondo, un possibile sigillo, significato, senso, labirinto di specchi deformanti e slancio vitale che non vede, nell’eternità della scansione inaudita del tempo, appagamento e requie: rinuncia, tuttavia, l’Interprete, al terzo colpo di martello, lasciando quindi nell’assoluta, indefinita, astratta sospensione il finale, fino allo spegnersi tenue della nota ultima. Molti gli applausi per il direttore e per l’Orchestra tutta, che viene chiamata sezione per sezione al meritato premio per impresa così ardua, in quello che, senza dubbio, è stato finora il migliore dei Concerti di una Stagione Sinfonica senz’altro di grande spessore.