Oedipus Rex, la masturbazione estetica di Robert Wilson

E' andato in scena in anteprima mondiale al Teatro Grande di Pompei l'Oedipus Rex dell'artista americano di fama internazionale Robert Wilson, nell'ambito della rassegna Pompeii Theatrum Mundi dello Stabile - Teatro Nazionale di Napoli.

Ha debuttato ieri 5 giugno nel Teatro Grande degli Scavi di Pompei l’attesissima prima mondiale dell’Oedipus Rex dell’artista visivo e teatrale Robert Wilson, che si è occupato dell’ideazione, dello spazio scenico, del disegno luci e della regia.

L’adattamento dell’Oedipus Tyrannos di Sofocle è stato commissionato al regista americano da Conversazioni/Ciclo di Spettacoli Classici che si svolge ogni autunno dal 1934 nel Teatro Olimpico di Vicenza e da Pompeii Theatrum Mundi la rassegna estiva dello Stabile – Teatro Nazionale di Napoli giunta alla sua II edizione, sotto la direzione di Luca De Fusco che ha aperto con il Salomè di Oscar Wilde lo scorso 21 giugno.

Lo spettacolo ha suscitato attese e aspettative sin dal suo annuncio a gennaio durante la conferenza che ha visto tra i protagonisti l’allora Ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini, sfiorando il sold out per la sua prima.

Basato sulle traduzioni italiane di Ettore Romagnoli del 1926 e di Orsatto Giustiniani del 1585, l’Oedipus Rex di Wilson si serve di cinque lingue (italiano, francese, tedesco, inglese e greco) per diffondere il messaggio millenario e sempiterno dell’opera sofoclea che narra le sventure di Edipo, ignaro uccisore del padre e sposo della madre, che tenta invano di sconfiggere e cambiare la sorte a cui è destinato.

Impossibile immaginare una rivisitazione canonica e “poco invasiva” del dramma originale o una riproduzione in punta di piedi della tragedia sofoclea, mentre c’era da aspettarsi da Wilson, artista audace e visionario, una rottura netta e totale, una reinterpretazione violenta (“oscena” per i puristi) di quest’opera.

Il regista sceglie innanzitutto di cercare nell’infinito mare di spunti che il dramma offre un punto di partenza, dice infatti: “Per me il tema centrale è l’oscurità. Egli (Edipo, ndr) si propone di fare luce sull’assassino di Laio per liberare Tebe dalla Pestilenza. Ma sarà capace di sopportare la luce quando questa infine farà luce su di lui? Sarà capace di confrontarsi con il suo passato, con le sue origini? Come il veggente cieco Tiresia sentenzia: fino a che Edipo avrà la vista, lui sarà cieco. Quando inizierà a vedere la verità egli si accecherà. Siamo noi in grado oggi di guardare la verità?

Protagonista assoluto dell’Oedipus Rex diventa allora la cecità davanti all’ovvio, il rifiutarsi di vedere ciò che è chiaro a tutti e se Sofocle cela in parte i segni che avrebbero potuto rivelare la verità al protagonista, Wilson li mette in bella mostra affidandoli alle parole ferme e prive di rimedio dell’aedo interpretato da una colonna del teatro italiano quale Mariano Rigillo.

Costruito come una scatola cinese messa di fronte a uno specchio, lo spettacolo si divide in cinque parti e un prologo, con la prima che riflette la quinta, la seconda che rispecchia la quarta e la terza come parte centrale. Ad ogni parte corrispondono specifici materiali messi sulla scena: assi di legno, rami secchi, lastre di metallo, rami versi, sedie pieghevoli, grandi fogli di carta catramata.

Sul palco attori e ballerini si muovono come ombre guidate dalla voce di Rigillo e dalle musiche originali di Dickie Landry e Kinan Azmeh, in un gioco di sovrapposizioni e contrasti, di voluto stordimento e confusione.

Le battute sono ripetute in maniera ossessiva, tradotte in tutte e cinque le lingue, a testimonianza dell’universalità del messaggio che si sta trasmettendo, che prescinde il tempo e lo spazio, superando anche le barriere linguistiche pur di arrivare forte e chiaro al pubblico e cioè che al destino non si sfugge innanzitutto, ma anche che si paga il conto alla fine di tutto ciò che si è commesso.

Il sogno lucido che Wilson ha pensato per il suo Oedipus Rex si poggia su un meraviglioso disegno luci che rispecchia il gioco di chiaroscuri pensato dal regista come metafora emblematica della storia narrata nonché sui costumi di Carlos Soto, spettacolari, fuori dagli schemi, stridenti tra loro in quel passaggio repentino dalla sontuosità dell’organza alla nudità della carne scoperta.

Eppure in questo meccanismo maestoso, studiato fin nel dettaglio e in cui tutti pezzi sono disposti con un’accuratezza maniacale, in questo manierismo che sfocia nell’ode all’estetica più pura, qualcosa si perde inesorabilmente e quel qualcosa è proprio la storia. Lo stordimento delle musiche polifoniche, l’incanto delle luci, i moventi dei ballerini, le poche frasi scelte del testo originale, tradotte, ripetute, urlate accecano come un caleidoscopio troppo luminoso perché vi si possa distinguere qualcosa al suo interno.

Dov’è finito il tormento edipeo? Dov’è la sua voglia di far prevalere la ragione sulla natura? Dov’è l’indagine dell’animo umano tracciata da quel profondo pensatore quale Sofocle era?

Robert Wilson reinterpreta il mito, riesce miracolosamente a non abbassarlo alla prosaicità del quotidiano (errore comune ai molti moderni che si confrontano con la tragedia greca), ma ne perde comunque un pezzo importante.

Al di là dei puristi a cui prima facevo cenno, l’Oeudipus Rex del regista americano eccede nella rarefazione e diventa elitario, per pochi eletti che – conoscendo già la storia a menadito – riescono a scorgerla sotto un mare di orpelli ed estetismi, ma che resta ai “comuni mortali”? A chi ha assistito allo spettacolo senza aver studiato la tragedia o senza quella conoscenza del teatro tale da far apprezzare certi raffinati espedienti? Perché tradurre l’opera in cinque lingue se poi si preclude dal comprenderla la maggior parte degli spettatori?

E soprattutto, in momento storico in cui il teatro in particolare e la cultura in generale sono in crisi e ad appannaggio di pochi, ha senso portare in scena uno spettacolo che sembra riservato ad una cerchia ristretta di eletti?

Il consiglio allora non è quello di abbassare la qualità o di puntare più in basso, certo, ma di non chiudersi in un circolo privato quello sì; perché un’arte che parla a pochi, si riduce ad una masturbazione intellettuale che nulla dà all’animo umano.