
Sembra il riflesso di una rosa bianca in uno specchio d’argento: lo sguardo innamorato del giovane Narraboth è acuto, l’apparizione lunare di Salomè, bianca e fredda nella notte definisce, in fondo e una volta per tutte, la tonalità di fondo, la dominante dell’intero atto unico, erraticità lunare che si riflette nello specchio – a ben pensarci, la luce della luna è essa stessa luce riflessa – e che non riscalda mai, frullar d’ali di colombe bianche, pallori e farfalle bianche.
Qui al Teatro Grande di Pompei, per la rassegna Pompeii Theatrum Mundi, la Salomè di Oscar Wilde è un disco oscuro su cui si proietta – riflettendosi talvolta anche a terra, nel gran cerchio della coscienza del mondo – la luna, ad illuminare la terrazza di marmo nero del Palazzo d’Erode: la regia di Luca de Fusco, coadiuvata dalle scene essenziali e solenni di Marta Crisolini Malatesta crea un algido mondo illuminato dall’esangue luce lunare e ammorbato dal frullar dell’ali nere dell’Angelo della morte e rinnova, in fondo, un rito, che poi è quello della messa in scena di quest’opera, nella versione recitata o, più frequentemente, in quella musicata da Strauss, che ancora esercita intatto il suo fascino su noi che abitiamo l’oggi.
Centrata sul mito lunare della luce fredda che non si scalda mai, in cui le frigide profferte di sesso della gelida principessa di Giudea, verginale reincarnazione di Lilith, miseramente falliscono di fronte all’altrettanta freddezza del profeta, riflettono una concezione narcisista d’autoerotismo di gran lunga figlia della modernità ormai novecentesca dell’autore, com’è giusto che sia, più volentieri che del fondante evangelico, attenendo piuttosto al Mito che alla Storia: il nome di Gesù, il Cristo, non viene mai pronunciato, sebbene parlino di lui sia il profeta sia i giudei; egli è sempre Colui che verrà o che pure è qui tra noi, un profeta, fors’anche il Messia, mai una persona reale con nome e cognome.
Eppur par vero che – ironicamente, icasticamente, a prenderlo avulso dal contesto – quasi sembra aver parvenza di dettato evangelico, la gran conclusione del farneticante Liebestod al contrario di Salomè, che diventa, in qualche modo, la cifra dell’opera: le mystère de l’amour est plus grand que le mystère de la mort (il mistero dell’amore è più grande che il mistero della morte). Oggi, dopo più di cent’anni dalla scrittura della Salomè possiamo forse ascoltare queste parole di Oscar Wilde e la musica che esse stesse “reclamano”, come diceva Strauss, senza sovrastrutture di ciarpame pseudomoralistico (da una parte) e pseudolibertario (dall’altro) che ne hanno inficiato piena comprensione e fruizione per troppo tempo.
La matrice, allora, di questa Salomè, nella sua desolante tragica assenza di desiderio (ch’è coscienza di limite), si traduce – in varia misura e in vario grado – nell’interpretazione dei protagonisti, Gaia Aprea, raggelante Salomè che raffrena perfino la postura in misura proporzionale al freddo che desiste dal (ri)animarla, contrapposta a Giacinto Palmarin, Iokanaan secondo consuetudine altrettanto bianco e glaciale quanto più le profferte della principessa si fanno via via pressanti e insistenti; Eros Pagni, magnifico Erode che, lontano tuttavia dalla tradizione che esige una caricatura di re, esercita invece in pienezza sovrana regalità ed ironico esercizio del potere, benché afflitto (a ricordo d’Amfortas…) dall’insanabile piaga della sua umanità gravata dal peccato, contrapposto ad Anita Bartolucci, perfetta Erodiade, per converso, nell’assoluta assenza di qualsivoglia coscienza del proprio errore, dello sfrenato egotismo suo.
In questo incrociarsi di contrapposte, parallele energie, in tensione tra i due opposti poli – facce della stessa medaglia – costituiti da un lato dalla miope nevrosi che impone il limite del desiderio e solo quello riesce a scorgere e ad amare e, dall’altro lato, all’ipermetrope perversione che pure quel limite prescrive ma soltanto per il gusto d’abbatterlo e distruggerlo, si gioca il senso di questa oscura e lucida Salomè.
Così nell’orrore della libagione finale riconosciamo, con una punta d’orgoglio e, insieme d’orrore, la modernità, nient’altro che il nostro moderno mondo dove non c’è più desiderio, ma solo necessità e pulsione. Impossibile, anche per noi contemporanei, non notare come questo testo – “teatro” che ogni volta riesce a farsi irrimediabilmente e a volte dolorosamente “corpo” – conservi in dote la capacità di superare in modo naturale e semplice l’evidenza visiva e visionaria dell’immagine, pur sempre concreta e vitale, per (ri)farsi e (ri)comporsi in musica, cioè in forma astratta, che quindi trascende, improvvisamente, la matericità dello sguardo per farsi suono e melica, pura energia pulsionale che apre spazi enormi e inusitati di comprensione.
Tutto il testo, apparentemente di così disarmante struttura, finisce per articolarsi, allora, nella traduzione di Gianni Garrera e nell’adattamento dello stesso De Fusco, come musicalità orgiastica, ipnotica, polifonica nel contrappunto delle frasi accostate per assonanza più che per logica strutturazione: tra i personaggi il dialogo non è mai “naturalistico”, non riesce – non vuole – articolarsi in domande e risposte, battute e repliche, piuttosto in ritmi poetici che si fanno urla e sussurro, vibrazioni e armonie che, nell’intreccio del discorso poetico dei vari personaggi – dei vari strumenti – articolano una vera e propria sinfonia.
A questo proposito, molti fanno notare la (presunta) scarsa dimestichezza di Wilde col francese, causa non ultima di un linguaggio deliberatamente semplice, nella sua quasi infantile ed incerta mancanza di profondità; dimenticano, i più, quel che è evidente leggendo invece l’inglese di Wilde, che, sempre, in versi o in prosa, possiede l’inestimabile dono d’una semplicissima sintassi, tanto che a noi stranieri appare essere di gran lunga più accessibile, potendo magari finire in uno stesso pomeriggio la lettura di Lady Windermere’s Fan, naufragando invece miseramente il tentativo di decifrare una strofa di William Morris o un paragrafo di Kipling.
E se tale scarso rilievo tecnico di Wilde è inversamente proporzionale alla sua intrinseca grandezza, anche l’abbondanza dei purple patches, brandelli di porpora, che infarciscono la sua lingua, a riprova del decorativismo dell’epoca, equivalente agli ori, smalti e porpore di Gustav Klimt, finisce per rivelarsi, al secondo sguardo, puramente di natura accessoria.
Si veda come, alla fine, pur indugiando a lungo nelle accurate appassionate descrizioni ed elencazioni, ora dei vini – porpureo come il mantello di Cesare quello di Samotracia, giallo come l’oro quello di Cipro, rosso come il sangue quello siciliano – , ora della bellezza di Iokanna – delle sue carni bianche, dei suoi capelli neri, della sua bocca rossa – ora delle offerte a Salomè perché rinunci alla testa di Iokanaan – l’enorme smeraldo verde, i cento pavoni, i gioielli celati alla vista del mondo (e com’è bello, com’è in fondo dolce, com’è drammaticamente vacuo nella sua disperata determinazione, l’errare senza senso, come obbedendo ad una legge inconoscibile, di Salomè che lentissimamente, come la luna, come una donna morta, si muove piano piano su per le antiche scale del Teatro, percorrendo un’orbita arcana e incongrua mentre Erode, con voce perfettamente calma inanella tranquillo la lunga litania dei gioielli mai visti, le perle, i topazi, gli zaffiri, i diamanti) – il colore dominante non cambi mai dall’inizio alla fine, restituendo allo sguardo e al ricordo dello spettatore null’altro se non un gelido pallore che risalta sul nero della notte.
E all’epilogo, il rito cannibalico del bacio alle labbra insanguinate di Iokanna, che improvvisamente, appena prima dell’oscurità, si trasforma nel bacio alle proprie labbra, alla propria testa, come in un riflesso che restituisce solo ombre fugaci del sé, non stupisce, in fondo più di tanto, ulteriore, esplicito riferimento al narcisismo di quest’opera, di questo tempo.