Naharin’s Virus: il virus di Mr Gaga

Ohad Naharin e i suoi danzatori in Europa con il loro coinvolgente spettacolo

Hellerau, tempio europeo dell’arte contemporanea con una predilezione per la danza, ha ospitato nei giorni 28, 29 e 30 giugno l’ensemble giovanile della Batsheva Dance Company, la compagnia diretta dal coreografo Ohad Naharin con sede a Tel Aviv. Lo spettacolo in programma era Naharin’s Virus, la pièce che dal 2001 sconvolge il pubblico internazionale e che ha segnato una svolta fondamentale nella carriera dell’artista israeliano, reso celebre dal film biografico Mr Gaga. Non era la prima volta che la Batsheva Dance Company si esibiva nell’importante teatro alle porte di Dresda, ma quest’anno le date degli spettacoli avevano un’importanza particolare in quanto il sabato 30 giugno il direttore artistico Dieter Jaenicke avrebbe preso commiato dal suo staff dopo nove anni di appassionato lavoro.

Naharin’s Virus è ispirato alla celebre opera teatrale “Insulto al pubblico” di Peter Handke, del quale diversi frammenti sono compresi nella pièce e combinati in un magistrale intertesto di riferimenti che danno allo spettacolo un valore inequivocabilmente politico. Politico è stato anche il discorso di apertura dell’ex-direttore artistico, che ha sottolineato come un luogo d’arte e di cultura sia necessariamente un luogo politico nella sua funzione di finestra sul mondo. Alle sue spalle si dimenava un manichino di plastica leggera gonfiato e sgonfiato e sospinto continuamente in direzioni diverse da un getto d’aria assicurato alla sua base.

Buio. Solo il manichino è illuminato e pare muoversi proprio dentro la scatenatissima musica araba che inonda la sala, muoversi secondo il getto d’aria sempre diverso, che ne spinge gli arti invertebrati e li piega e tende in ogni modo. Poi il palcoscenico viene illuminato e il manichino portato via. Lo spazio è vuoto e disadorno, ma una ballerina traccia lentamente una linea di gesso bianco sulla parete di fondo. È sulla stessa parete che in alto a sinistra troneggia un uomo in abito da sera. Non è la mano della ballerina a tracciare la linea con il gesso bianco e neanche il suo braccio, bensì tutto il suo corpo che dalla punta dei piedi a quella dei capelli partecipa dell’intento di quel disegno, tanto che a tratti viene da chiedersi se sia il disegno a produrre i movimenti della ragazza e non il contrario. A volte la ballerina con un gesto violento si attacca alla parete nera, e con il gesso, che non interrompe mai la linea, traccia la sua stessa sagoma, divenendo parte esplicita del suo disegno.

Naharin’s Virus

L’uomo in piedi sulla parete inizia a declamare il celebre testo di Handke alla base di Naharin’s Virus: si rivolge direttamente al pubblico e lo rende cosciente delle sue aspettative, che non verranno soddisfatte. La linea bianca, intanto, continua ad essere tracciata, con la partecipazione di un secondo ballerino. Guardando indietro, verso destra, si vede la sagoma disegnata a gesso dei passi effettuati precedentemente: la cinestetica dei corpi e il loro modo di procedere nello spazio ha lasciato traccia. I ballerini sono diventati numerosi, si muovono e si incontrano con lenti movimenti perlustrativi, a volte restano immobili, solo colui che traccia la linea e la voce recitante non si fermano mai. “Adesso iniziate a respirare insieme” (…) “Noi e voi diventiamo lentamente un’unità”, recita la voce, rivolgendosi sempre al pubblico.

Il primo picco drammatico si presenta quando una ballerina cerca di staccare colei che traccia la linea di gesso dalla parete nera, di strapparla dalla sua azione. Lei si oppone, si ribella con tutte le sue forze, ma l’altra riesce infine a scaraventarla via. Gli altri si muovono coordinatamente e molto lentamente mentre la ballerina con il gesso si sposta sul proscenio e riprende a scrivere freneticamente, questa volta nel vuoto e in direzione del pubblico. Poi urla, squarciando la sintonia dei ballerini alle sue spalle. “Qui non verrete trattati come individui. Qui non avete più una fisionomia”, continua monotona la voce recitante. È allora che parte una musica araba con base elettronica e tutti i ballerini si dispongono in fila sul proscenio. Stanno immobili e uno ad uno, con ritmo irregolare, esplodono in un caos di movimento, un urlo del corpo pieno dell’energia che contraddistingue le opere di Ohad Naharin. Gli arti si dimenano come emanazioni di un centro vulcanico ubicato nello sterno. A queste esplosioni segue sempre una fase di immobilità, un’immobilità attiva, con la testa alta che si lascia scorrere addosso il fiume ritmico della musica.

La parete/lavagna sullo sfondo sfoggia poco dopo l’enorme scritta “Plastelina”, Palestina con lo spelling sbagliato, che negli anni è diventata il simbolo di Naharin’s Virus. Seguono dei momenti lirici con l’adagio di Samuel Barber, durante i quali i corpi sembrano lottare per quella armonica tensione verticale che le esplosioni di energia e di violenza portano continuamente via. Il gruppo danza, le braccia e le gambe come trasportate in volo dagli acuti dei violini, e solo un esule sullo sfondo continua a scrivere febbrilmente alla lavagna a testa in giù, fuori dal ritmo, fuori dalla pace che sembra aver raggiunto gli altri. Il gruppo poi cade, cede alla gravità, i corpi si accartocciano al suolo. Solo una ragazza procede in piedi, attraversa il palco diagonalmente con le braccia sollevate come appese alla luce. Forse la sua forza incoraggia quella, di nuovo esplosiva, degli altri, che ad uno ad uno saltano in piedi. E di nuovo l’urlo di una ballerina, a rinnovare il gioco tra il dramma individuale e il resto del mondo, che più o meno si accorda e si incontra nei movimenti coreografici.

La voce recitante rende il pubblico cosciente del proprio sudore, dei propri pruriti, degli arti e delle posizioni assunte. E gli spettatori non sono più propriamente estranei allo spettacolo in corso, si sentono sempre più presenti, anche fisicamente, a ciò che avviene davanti ai loro occhi. In uno dei momenti ritmici di musica elettronica vediamo una ballerina sullo sfondo che ride e urla sguaiatamente mentre qualcuno, da sopra, le permette di dondolare appesa alla parete nera. Il gioco continua e qualcuno le cala il microfono, al quale lei cerca di abboccare, ridendoci dentro sempre più forte, producendo immondi suoni gutturali. Poi, il momento pornografico in senso handkiano, nel quale i termini e i confini dello spettacolo e del fare spettacolo vengono irrimediabilmente rotti, mentre lei “ingoia” il microfono acceso.

La voce tornerà a ripetere che in quanto presenti in quella sala siamo stati privati della nostra individualità, e i danzatori che ciclicamente si staccano dal gruppo cercheranno di rivendicare per noi e con noi il diritto ad un’esperienza soggettiva, come quella della ballerina che durante una coreografia corale si arrampica sulla parete di fondo e fa da lassù segnali di richiamo al pubblico, urlando per attrarre la sua attenzione. I movimenti dei corpi oscillano tra una specie di resa alla furia trascinante della vita nella sua forma più primordiale e l’adesione ironica a una serie di modelli preesistenti (classica e rigida per esempio, o molluscamente techno), un’adesione parziale, come parte di un gioco di ruolo. “Il fatto che non mettiamo in scena niente rende il tutto così buffo e così tragico insieme”.

“Non possiamo mettere in scena la morte. Quel momento in cui viene esalato l’ultimo respiro che la statistica ci dice avvenire ora. E ora. E ora. E ora. E ora.” La lavagna, poco sopra la scritta “Plastelina” si colora di rosso durante queste parole. Poi una musica lenta, rassegnata, al pianoforte. Movimenti di calma e bellezza nell’ampio respiro del duo che danza sulla destra del palco. A turno un ballerino fiorisce e l’altro gli cammina gobbo e annichilito intorno. “Non ci sono porte. (…) Qui non ci sono pause. Le pause tra le parole qui non hanno alcun significato. (…) Non siete la quarta parete del palcoscenico.”

Dentro ogni corpo avviene il miracolo dell’elegia dell’uomo. Ogni ballerino è ogni spettatore. Ogni movimento è il vuoto che lo circonda. Ogni confine è frantumato. E non ci sono porte, afferma la voce recitante. La scritta Plastelina, così dominante sullo sfondo, non nasconde l’errore di spelling che la caratterizza, “buffo e tragico”, appunto. Una Plastelina che non può essere Palestina, per nessuno e per tutti, per un errore di fondo, per il dramma umano che Naharin’s Virus mette in scena in tutte le sue sfaccettature. Un inno alla libertà, anche, nei momenti lirici in cui i corpi immobili in posa si stagliano contro la forza trascinante della più ritmica delle musiche. Tutta l’opera è caratterizzata da salti mozzafiato tra il caos del movimento e l’ordine della stasi e da quelli tra il caos della stasi e l’ordine del movimento.

Alla fine l’ultima, gloriosa, parte del testo di Handke: il vero e proprio insulto al pubblico, preceduto però dall’ammissione secondo la quale il pubblico stesso avrebbe salvato la pièce. Perché qualcuno che guarda, così attivamente come si è costretti a guardare Naharin’s Virus, e qualcuno che partecipa di ciò che guarda, può davvero salvare l’uomo dalle sue tragedie. Le offese e gli improperi si riversano sul pubblico come una cascata inarrestabile, il ritmo della recitazione si fa sempre più serrato, viene detto tutto e il contrario di tutto. Non ci sono più esplosioni o momenti lirici dei corpi: tutti i ballerini si muovono coordinatamente ruotando su se stessi con un braccio alzato, cambiando regolarmente direzione. Adesso non tocca a loro, tocca a noi. Offese sociali, fisionomiche, razziali, religiose, mescolate e contraddittorie, che tirando in causa tutto sembrano veramente riuscire nell’intento di Handke di distruggere tutto e creare quel vuoto tanto cercato da Naharin. Il vuoto in cui, senza confini e senza connotati (come il manichino iniziale), senza politica e credo, un uomo è un uomo.

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