
[rating=4] Che cosa ci può essere di meglio che trasferirsi in campagna per sfuggire al trambusto, la frenesia e l’irrequietezza della vita cittadina? Rilassarsi sotto un albero lambiti dalla luce del tramonto rappresenta senza dubbio un paradiso per chiunque, ma non per Martin Crimp, l’autore del testo da cui è stato creato lo spettacolo “The Country” in scena con Laura Morante, Gigio Alberti e Stefania Ugomari Di Blas al teatro Arena del Sole di Bologna. La campagna (the country appunto) per lui rappresenta lo scenario dove le persone manifestano i loro malumori, le loro speranze perdute, le frustrazioni e le ansie. Questo paesaggio mistico, buio e misterioso, che non a caso qualche critico ha rinominato “Crimpland” (lo spazio di Crimp), attanaglia Richard e Corinne, marito e moglie, che abitano con i figli in un ex fienile ristrutturato.
Il cinguettio che apre lo spettacolo stride immediatamente coi toni cupi e pesanti della scena, le battute, piene di iterazioni, di frenate e brusche accelerate (come le domande improvvise e taglienti di Corinne) sembrano delineare un meccanismo che si è rotto, che procede a scatti. Corinne ritaglia foto da alcune riviste per incollarle attorno alla culla, da sola: insieme a lei c’è solo il marito ed è quindi come se fosse sola. Tutto intorno non si respira che freddezza, indifferenza e abitudine.
Richard ha trovato una ragazza svenuta per strada, e l’ha portata a casa. Il dialogo, un flusso di domande e risposte secche e deduttive, indaga sull’identità della donna e sul perché si sia sentita male in un’isolato sentiero di campagna. “Menomale non è la mia”, “menomale non è la tua cosa?” “menomale non è la mia bambina”. “Dammi un bacio”, “te l’ho già dato prima”. “Non senti che l’acqua ha un sapore diverso oggi?”. “non mi ami più?… smettila di fissare il vuoto”. La loro storia d’amore è finita, semplicemente convivono e accudiscono i figli.
Il testo è asciutto e incisivo, molto bello. Riesce a far parlare i due per venti minuti di niente ma tenere ugualmente lo spettatore incollato all’ascolto. Spesso si introduce un particolare nuovo e colorato (ad esempio il barattolo di vernice che non si trova più o il contatore della luce che continua a ticchettare nel corridoio di un paziente) che pian piano entra a far parte dell’impasto principale, si ingrigisce come il resto, in futuro verrà riusato in quanto ormai parte della storia. Frasi lasciate cadere nel vuoto come “credevo che avessi smesso”, e “tu hai già pagato per quella roba” fanno annusare un passato quantomeno discutibile dell’uomo. Perché si trasferiscono qui? Da chi o che cosa fuggono?
“L’avresti portata a casa se fosse stata un uomo?”, “non ho deciso io che sesso aveva”. Ma la ragazza era già una vecchia conoscenza del dottore, era “salita in macchina per vedere una pietra”. Una pietra del sentiero di sassi dove Richard è andato a prenderla. Un paziente chiede un intervento urgente e il dottore deve allontanarsi da casa, lasciando lo spazio vuoto per l’incontro di Corinna con la ragazza, Rebecca. Si scopre di lì a poco che la ragazza, molto aggressiva e prepotente, è l’amante di Richard: “siete venuti a vivere qui in campagna per me!”. Nonostante questa verità tagliente gli venga sbattuta in faccia così, Corinna difende il marito: “tu gli hai dato un segnale che lui ha frainteso, è un uomo”, “come fai ad illuderti così?”.
Mentre Corinna e Richard sono fatti allo stesso modo, l’uno finisce le frasi che inizia l’altro, sono come in simbiosi, Rebecca è diversa, emotiva e non deduttiva, prepotente e non remissiva, malata ma non zombie, ed è infatti l’unica a raccontarsi con un monologo al posto del perenne dialogo serrato.
Nella scena finale, la coppia sembra ripiombata nel vecchio grigiore, ma stavolta Richard è tutto premuroso verso la moglie, che ha i capelli corti ed è vestita in modo appariscente per copiare lo stile di Rebecca. E’ Richard a sincerarsi che l’acqua non abbia un sapore strano, tutto si è ribaltato ma è rimasto uguale, come se si trattasse dei moti interiori di una persona soltanto. Corinna torna nel sentiero dove Richard ha incontrato Rebecca per “cercare qualcosa di umano”, cioè per perdonarlo, e ritrova la pietra, che “aveva iniziato a divorarmi il cuore”. Ora dovranno solo “passare il resto della vita a fingere l’amore”.
Un testo tagliente che con la regia perfetta di Roberto Andò, un veterano del Teatro dell’Assurdo, viene esaltato e sublimato. Ruolo difficilissimo per i tre attori, perché l’assurdo richiede “neutralità”, cioè l’asportazione quasi totale di tutte le emozioni che si possono annidare in ogni battuta, e ciò necessita di uno sforzo supplementare, come ci conferma la Morante: “questo testo è molto intenso e per certi versi difficile, perché richiede tensione e grande concentrazione e non tutte le sere riusciamo a restituirlo al pubblico come vorremmo, allo stesso modo e con la stessa efficacia”. Questa sera ci sono riusciti.