
Lo psicanalista Francesco Stoppa definisce adolescenza e vecchiaia come le età dell’inquietudine e del desiderio, entrambe foriere di creatività e di derive identitarie.
Ed è proprio il desiderio dei vecchi che il regista francese Mohamed El Kathib, maestro del teatro documentario, vuole indagare attraverso La vie secrète des vieux, presentato al LAC di Lugano nell’ambito del FIT (Festival Internazionale del Teatro e della Scena Contemporanea), dopo il debutto al Festival d’Avignone, produzione Zirlib (Orléans).
Uno spettacolo di teatro partecipativo, realizzato in quattro anni di ricerche e interviste ad anziani e personale sanitario, presso associazioni e case di riposo, in Francia e in Belgio.
In scena vediamo sette interpreti, di cui tre attori e quattro esponenti della terza età: Sali, Jean-Pierre, Micheline, Annie, Martine, Chille, Yasmine. Grazie al contributo drammaturgico di Camille Nauffray, i meno giovani hanno fatto un percorso di avvicinamento e disvelamento di sé, che li ha portati infine sul palcoscenico, con un testo autonomo. Condensano nella loro storia quella di altri, di cui si fanno testimoni sensibili e leggeri, in cambio della tacita promessa di non rivelarne, soprattutto, il contenuto ai figli.
Sono affidati al video il prologo di Jacqueline, già conduttrice della RTBF, e i suoi puntuali interventi, così come il racconto di Anne, morta suicida in una residenza per anziani a La Rochelle, perché separata dal suo amore Jean-Claude, per volontà della prole. Più oltre saranno presentate le ceneri di Georges, un compagno di lavoro un po’ gigione, scomparso recentemente, perché “fare uno spettacolo sull’amore significa anche farne uno sul lutto dei nostri amori”, dirà un interprete.
E gli altri sono qua per sfidare insieme la nera Signora o farsene sorprendere durante l’ultima recita, come i grandi del passato. D’altronde, “meglio morire in scena che in una casa di riposo”. Non sappiamo se queste vicende mostrino uno spaccato sociologico, ma sicuramente fanno riflettere sulle nostre rappresentazioni della vita nelle sue fasi.

Si tratta di uno spettacolo politico che, attraverso parole autentiche, vuole scardinare l’ultimo grande tabù sulla vecchiaia, il quale vorrebbe gli anziani se non privi di una vita affettiva, quanto meno di una vita sessualmente attiva.
Ecco invece questi vegliardi irrequieti alle prese con storie segrete e passioni, masturbazione (“quasi un ritorno all’infanzia”, dice Annie) e orgasmi; sex toy occasionali o d’ordinanza (lasceremo allo spettatore il gusto di scoprirli); erezioni e descrizioni di parti anatomiche, con un lessico a volte diretto altre mediato da amabili metafore e situazioni da pochade. Affermano che queste parole sono state a lungo ignorate dal vocabolario. Di certo, dalla morale.
Parlano quindi di pulsioni e dei limiti di un’educazione religiosa e borghese. Raccontano la loro prima volta. Sognano baci e carezze, come a quindici anni. Leggono lettere d’amore e recitano poesie. Si producono in un omaggio musicale tutto italiano a Rosa Balestrieri.
Chiedono di tornare a esistere agli occhi di qualcuno. E riescono a sublimarne il bisogno, attraverso l’immaginazione: sono teneri e anche credibili nei panni di Romeo e Giulietta o in quelli di Berenice. D’altra parte, perché no?
E ancora sperimentano i servizi di sex-worker o cercano avventure estemporanee. Dispensano consigli pratici e persino clinici. Vivono una nuova identità lesbica o trovano il coraggio di fare il coming-out tardivo della loro omo o bisessualità, in una stand-up comedy familiare. Liberano le loro fantasie.
In conclusione, ribaltano stereotipi e retaggi del passato che vedrebbero le donne in declino dopo la menopausa e gli uomini ridicolizzati nel loro perenne desiderio. Si sentono però anche liberi di dichiarare, con una punta d’orgoglio, d’essersi “ritirati dalla scena sessuale per lungo tempo”: l’affettività è un diritto, non un obbligo, ça va sans dire.
In realtà niente di nuovo, al giorno d’oggi. Ma allora, perché stupirsene? A farlo in verità sembrerebbero i figli dei protagonisti/interpreti, seccati di fronte alle confidenze pubbliche dei genitori, in materia. Sì, perché eccezionalmente è stata data a quest’ultimi la facoltà di esprimersi.
E se da anni gli anziani elaborano il lungo adattamento necessario alla creazione di un nuovo equilibrio identitario, sono i più giovani ad alzare la barriera del pudore, avocando a sé l’esclusività della vita sessuata adulta. Trattano i genitori spesso come bambini, salvo poi dimenticarli nelle residenze per anziani. (E questa volta sono costoro a esserne seccati, ma sanno trovare il coraggio di fuggirne, come Micheline).

D’altra parte, il conflitto generazionale è sempre esistito. A dispetto dell’opinione comune, neppure nei tempi antichi la vecchiaia godeva di buona fortuna. Tranne in rari contesti, dovuti al censo e a particolari condizioni di salute, gli anziani vivevano una forma di emarginazione.
Fa eccezione la loro posizione nell’Antico Testamento, a Sparta e nel Senato romano. Eppure, lo stesso Cicerone, seguendo Platone, nel De Senectute vedeva il climaterio maschile come una liberazione dalla giovanile schiavitù dei sensi. La commedia plautina e poi quella goldoniana denigravano, dei vecchi, decrepitudine e penosi difetti, tali da renderli comici (fra di essi: lascivia, avarizia e tirannia).
Nei secoli, indigenza e malattia avrebbero condannato gli anziani ad un inesorabile destino di abbandono e, non di rado, alla mendicità. Di amore e desiderio neanche a parlarne, essendo prerogative della bellezza e della gioventù. In controtendenza, la Francia rivoluzionaria istituì le Fêtes de la Vieillesse per onorare i vegliardi, simbolo di saggezza e virtù morali: il Secolo dei Lumi stava mutando il pensiero sulla vecchiaia.
E oggi ancora una volta siamo chiamati a un cambiamento di paradigma che veda gli anziani non solo come soggetti consapevoli e attivi sul piano fisico, intellettuale e sociale, ma capaci anche di esprimere attaccamento alla vita e al piacere. Essi vogliono essere liberi di “assumere” il loro desiderio insieme con l’affettività e una nuova identità. Non accettano di farsi mettere a riposo. Vogliono continuare a celebrare la vita.
Il pensiero della malattia non è assente in loro. Una parte del corpo li abbandona e ogni volta che fanno l’amore potrebbe essere l’ultima. Ma questi racconti ci dicono che vanno ripensate la terza e persino la quarta età. Così come le forme e le strutture di cura: spesso non-luoghi, anticamera della morte. E se la cura venisse proprio dal teatro, per la sua possibilità di trasfigurare il reale in un tempo altro di cui essere inquieti protagonisti?