
«Lo spazio dello spettacolo, di fatto, non esiste. La sua dimensione fisica risiede solo negli oggetti che appaiono in scena». Così, nel 2002, in una conversazione con Aldo Viganò, Luca Ronconi narrava il proprio lavoro su “Quel che sapeva Matisse”. L’allora direttore del Piccolo era già noto per la propensione a tradurre sulla scena testi nati per la lettura, ma Maise era un caso particolare: l’infanzia della ormai anziana protagonista veniva narrata attraverso il filtro dei ricordi del passato, facendo emergere una ricostruzione incompleta, instabile, traballante.
Il tema della parzialità della narrazione e della frantumazione delle informazioni traspare in modo assoluto anche in “Trilogia della città di K.”, nuova produzione del Teatro Piccolo di Milano, in scena fino al 21 dicembre presso il Teatro Studio Melato.

Il romanzo di Agota Kristof, punto di partenza della drammaturgia di Chiara Lagani, segue da vicino i destini diversi di Lucas e Claus, gemelli separati da bambini allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. La città di K. è un luogo infernale dove la morale viene costantemente tradita, dove regnano sopraffazione ed abuso. La cruda e disturbante vicenda – che ingloba in sé questioni complesse, come guerra, violenza e sopravvivenza – si compone come un puzzle di eventi, nomi e dettagli, un labirinto di informazioni in cui lo spettatore deve districarsi per ricostruire attivamente un’immagine compiuta della storia.
In questa traduzione scenica del romanzo sembrano emergere due lenti tematiche. Da un lato, nella regia di Luigi De Angelis domina il concetto di “limen”, confine: sin dall’inizio dello spettacolo, e praticamente per tutta la sua durata, una linea di luce divide perfettamente in due il palcoscenico. Rappresenta la frontiera tra la città di K. e il resto del mondo, tra le zone in guerra e le terre in pace, ma è anche simbolo dei sentieri paralleli che i due gemelli sono costretti a intraprendere.

D’altro canto, il dramma composto da Lagani sembra proporsi come una riscoperta delle possibilità e delle potenzialità della narrazione. Ridotta al minimo l’azione scenica, l’evolversi della storia avviene perlopiù tramite il racconto. Nella prima parte della trilogia, personaggi e location evocati dalla ricostruzione di Ágota Kristóf (interpretata da Federica Fracassi) vengono mostrati al pubblico unicamente attraverso statiche sequenze video, trasmesse su schermi rettangolari posti a mezz’aria. L’immagine filmica, lungi dall’essere sfruttata per la sua potenzialità illusoria, finisce per svelare la natura finzionale dello spettacolo stesso. I primi piani degli attori sono immersi in posticci fondali neutri e vengono giustapposti ad ambienti reali e naturali (alberi, fiori, ruscelli, animali…). Nel secondo e nel terzo atto, invece, sono gli stessi corpi degli attori a diventare medium della narrazione: la loro recitazione è straniata, la loro azione limitata, ed enunciano sistematicamente didascalie di scena.
Esperimento di tenuta e dilatazione del tempo, lo spettacolo immerge il pubblico in una dimensione fuori dal comune che lo rende alienato di fronte al dolore. Emblematica è l’immagine che appare sul palco a inizio secondo atto: una gigantesca statua dalle sembianze umanoidi viene lentamente e perentoriamente a galla da una botola. È un corpo deformato, dalle spalle disassate e rannicchiato su sé stesso. È Matias, nient’altro che un bambino, nient’altro che il risultato informe della claustrofobica società del testo.