
[rating=4] Il nero della scenografia esalta l’ufficio sopraelevato ed illuminato del direttore Roote, una specie di acquario da dove anche le parole non si spandono libere nell’aria ma vengono veicolate da un microfono. A sinistra in basso, nella penombra, una scrivania che pare incastonata in un sottoscala, l’ufficio di uno scribacchino, il segretario Gibbs. Così appare la scena dello spettacolo “La serra” di Harold Pinter al teatro Arena del Sole di Bologna per la regia di Marco Plini.
“Come va il 6457”, “È morto, signore”, “di che cosa è morto?”. Roote dirige una specie di clinica-ospedale (psichiatrico?) in modo approssimativo e inconcludente. Il suo segretario Gibbs lo assiste e gli ricorda tutto, come ad esempio il motivo per cui i pazienti vengono chiamati per numero e non per nome. “E’ stato il predecessore a istituire i numeri”. “Avrei potuto istituire più cambiamenti”, si lamenta Roote, incapace di comandare ma solo di urlare, costantemente smarrito nelle sue paure e schiacciato da quel sistema che potrebbe cambiare se ne avesse la forza. “Perchè non mi è stato riferito?!”, “ha firmato lei il certificato di morte, signore”. Il suo personaggio è chiaramente pinteriano, inadatto, in continua ricerca di approvazione ed aiuto, senza spina vertebrale. Persino la donna con cui si frequenta all’interno dell’istituto, anche lei insicura, gli chiede: “Ma tu sei felice con me? […] Penso di non essere abbastanza femminile per te, […] forse perchè tu credi di non essere abbastanza virile”.
Pinter scrive il testo nel 1958 ma decide di metterlo in cantina, ancora stordito dalle non lodevoli critiche del “Compleanno” del 1957 e per timori di plagio riguardante altri scritti dell’epoca. I suoi testi precedenti sono molto più assurdi e profondi di questo, non si spiega niente, si deduce soltanto lo stato dell’uomo da cosa fa e da cosa dice ma senza svelare niente. Qui invece qualche indizio in più viene fornito, forse perchè il testo è stato riletto e pubblicato ben ventidue anni dopo.
L’attenzione sembra spostata dallo stato dell’uomo a quello della società, dove il potere viene tramandato per discendenza da un reggente all’altro senza meriti, e dove gli uomini vivono in tante celle chiuse e sono chiamati per numero. Sono indefinibili: “Alto?”, “Sicuramente non basso, signore”, “zoppicava con una gamba, la sinistra? La destra? Beh sicuramente con una delle due”. Quando Roote fa la lista infinita di tutte le attività che fanno fare ai propri degenti, viene il sospetto che non siano per niente pazienti, ma anzi siano persone comuni, inscatolate in un regime. La lotta per il potere porta Gibbs a fare le scarpe a Roote incolpando e sacrificando Lamb (Lamb in inglese significa agnello…), così come Roote ha fatto col suo predecessore.
Si arriva in alto facendo fuori chi occupa la poltrona desiderata in un ciclo che si estende all’infinito. La corruzione morale dei detentori del potere è abnorme, “se un membro del personale medico decide che, per il bene del paziente, sono necessari un certo numero di coiti, beh, è come prendere due piccioni con una fava! Non fa male a nessuno”, anche il ministro che conferisce i poteri a Gibbs nel finale è chiamato con nome maschile ma è una donna svestita e provocante, una prostituta. Una società arida (il dramma si svolge durante il giorno di Natale ma nessuno pare avere famiglia), che ci imbocca come piante in una serra, tenendoci rinchiusi per non perdere i privilegi conquistati illegalmente. Nella scena che chiude il primo atto, lo stralunato Lamb viene sottoposto all’elettroshock: passa da essere l’addetto al controllo delle serrature ad un paziente da curare, gli vengono fatte domande a raffica (“potrebbe definirsi una persona emotiva? Ha sbalzi di umore?”) ma non perde il suo nome per un numero. Se questo è il trattamento riservato a lui, viene da chiedersi cosa possano subire i pazienti “veri”.
Inutile elogiare ancora il fenomenale testo di Pinter: uno dei suoi punti di forza è di farci percepire l’attesa e la violenza pur non mostrandola mai apertamente sulla scena (“sento odore di catastrofe”). La regia è molto intelligente, la scenografia studiata nei dettagli così come le luci. Bravi gli attori in questo spettacolo che apparentemente sembra un thriller ma che, scavando, riserva riflessioni profonde e graffianti.