
Il VIE festival, la kermesse del teatro contemporaneo più famosa in Italia, si apre con tanti spettacoli degni di nota, tra cui spicca fra gli altri lo spettacolo che ha vinto il Best Sound Design e l’Irish Times Theatre Awards nel 2015: “Chekhov’s first play”, prima nazionale, al Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena, del collettivo irlandese Dead Centre di Dublino, capitanato dai due registi Ben Kidd e Bush Moukarzel.
Spettacolo in inglese con sovratitoli in italiano, in ogni poltroncina ci attende una cuffia. Una volta indossata potremo udire i commenti di uno dei registi che appare sul palco per presentare il lavoro e che commenterà tutto il pezzo da fuoriscena, con riflessioni irriverenti e sagaci: ci racconterà cosa Cechov amava inserire nei suoi drammi, gli errori degli attori e le varie vicissitudini affrontate per poter mettere in piedi uno spettacolo così maestoso, come ad esempio il deliberato taglio di molti personaggi e scene.
Il manoscritto dello spettacolo di Cechov venne ritrovato soltanto nel 1921, ma fu scritto tra il 1880 e il 1881, quindi a tutti gli effetti è il primo lavoro importante al quale il famoso drammaturgo russo ha lavorato. Lo scrisse, e lo fece trascrivere con molta cura dal fratello, per dedicarlo all’attrice Marija Ermolova, che però lo rifiutò. Anton distrusse allora la trascrizione del fratello e soltanto nel 1921, dopo l’apertura del lascito testamentario, fu ritrovata la prima stesura dell’opera, il manoscritto originale. L’opera inizialmente aveva troppi personaggi, temi ed azioni, risultava quasi impossibile da mettere in scena. Comprendiamo quindi l’intenso lavoro di rilettura dei due registi irlandesi, per ricompattare il dramma nelle atmosfere delle prime battute iniziali e per disintegrarlo completamente poi nel corso dello spettacolo, fra colpi di scena ed incursioni di elementi contemporanei di sicuro effetto, ma che fanno perdere di vista la trama e talvolta anche l’autore.
La frattura si percepisce benissimo quando irrompe sulla scena una palla di ruspa da demolizioni che colpisce la scenografia, laddove qualche minuto prima si era detto che la villa, fiera ed immutabile, sarebbe sopravvissuta ad ogni personaggio sulla scena. Infatti i fantocci sul palco sembrano tanti fantasmi, ricordi lontani: un dottore che non sa curare, una proprietaria terriera che non sa amministrare, sembrano tanti gusci vuoti. Tutto il dramma ruota attorno alla figura di Platanov, un maestro elementare del quale sono innamorate le donne e ammaliati gli uomini di questa indebitata e decadente borghesia russa di fine ‘900: il protagonista dapprima è sempre osannato anche se assente, poi esce dal pubblico, anche lui con la cuffia in testa: è uno di noi, un uomo comune, non ha niente di speciale, allora perché tutti lo venerano? Platonov non dice una parola, cammina come un ebete da una parte all’altra del palco, strattonato dai suoi ammiratori, ed alla fine resta così com’era fin dall’inizio, vuoto, immerso in un mondo ormai senza ideali. Tutta la scenografia viene martoriata e sfondata dagli attori, ogni sua ferita genera luce, come se la società facesse ombra alle singole potenzialità umane che racchiude. La decadenza ingoia tutto come un enorme buco nero. Non si salva nessuno, nemmeno il regista iniziale che, ritornato come fantoccio anche lui sul palco, subisce il medesimo annichilimento e si suicida.
Uno spettacolo non immediato, frutto di un impegnativo lavoro di decostruzione e pieno di colpi di scena, così come di spunti originali: l’idea del “regista nel teatro” che sostituisce il “teatro nel teatro”, così come l’uso delle cuffie per ascoltare le musiche, gli effetti sonori ed i commenti del regista, che si possono anche togliere per sentire la voce vera degli attori nel silenzio generale. Non mancano gli spunti comici, quasi tutti racchiusi nei sarcastici commenti del regista. Gli attori sono bravi, i costumi e le scene sono di buon livello, anche se talvolta i piazzamenti luci non sono così efficaci.
Il pubblico dovrà preventivare l’inevitabile scoglio linguistico per chi non mastica l’inglese (peraltro con pronuncia perfetta, senza inflessioni): purtroppo i sovratitoli diminuiscono sempre la godibilità dello spettacolo. Il consiglio quindi è di arrivare al teatro già con una piccola infarinatura di quanto si andrà a vedere.