
Non è la prima volta che lei collabora con Michele Santeramo. Ricordiamo, tra le altre opere, Alla luce. Adesso è la volta de Il Nullafacente – drammaturgia di Santeramo, di cui lei ha curato la regia – e che debutterà il 3 marzo al Teatro Era di Pontedera. Potrebbe raccontarci com’è avvenuto il vostro incontro e com’è stata la genesi di questo nuovo spettacolo?
E anche, dato che lo stesso Santeramo sarà in scena, cosa significa per lei dirigere un attore che è anche ideatore e drammaturgo?
L’incontro con Michele è avvenuto in un bar a Lari durante il Festival Collinarea. Sapevamo che c’era un’idea (non nostra) che ci voleva far fare un’esperienza insieme. Allora posi a Michele una sfida ed una condizione: si può lavorare insieme solo se il lavoro ci può far scoprire qualcosa che ancora, come esseri umani, non conosciamo. Non uno spettacolo su un tema o una storia, ma una avventura umana che ci portasse a riflettere sul nostro “funzionamento” come persone e di cui il teatro sia lo strumento per “conoscersi”. Michele accettò con entusiasmo.
C’erano 4 avventori che giocavano a carte ad un tavolo ed io gli dissi “Ecco, possiamo partire da un contesto come questo, però immaginando che i 4 giocatori siano ciechi. Te la senti?” E così è cominciato un lungo percorso ed una vera amicizia personale. Poi, passo dopo passo, per mesi interi il progetto è stato discusso e ridiscusso, elaborato più volte fino ad arrivare a Alla Luce. Per Il Nullafacente, Michele aveva questa idea ancora in nuce da più di due anni. Ho accettato, con le stesse regole precedenti, di farla anche mia e così, dopo ancora due anni e mezzo, siamo arrivati al testo definitivo. Lunghi incontri che approfondivano via via il tema, cercando ogni volta di capire dove ci avrebbe portati. Abbiamo passato giorni con il filosofo Augusto Timperanza e con Luigi Lombardi Vallauri. Non doveva diventare un lavoro di critica sociale, ma una riflessione su chi siamo, come funzioniamo in rapporto al senso della nostra esistenza ed anche come ci poniamo di fronte alla fine della nostra vita. Poi lo spettacolo è diventato anche una grande storia d’amore. La capacità di Michele di ricercare temi che entrambi sentiamo come nostri e di scriverli poeticamente con un fondo di “ironia drammatica” ha fatto il resto.
Oggi per me, Il Nullafacente è un luogo di meditazione che durante le prove, ogni giorno, mi sorprende. Quando ho dovuto scegliere gli attori, oltre al gruppo storico che aveva lavorato in Alla Luce, ho chiesto a Michele (su consiglio di Silvia Pasello) di lavorare con me come attore. Michele ha già fatto l’attore, ma sapevo che per lui si trattava di una vera sfida, anche come autore che può riascoltare, giorno dopo giorno, la propria scrittura. Trattandosi di una sfida impossibile, ero certo che avrebbe accettato. Il gruppo lo ha accolto con entusiasmo e credo che tutti noi abbiamo imparato qualcosa. Michele, serenamente, si è messo al servizio dello spettacolo, in modo serio e disciplinato, così siamo andati a interrogare insieme il testo, per capire cosa nascondeva. Spero che lo spettacolo ponga agli spettatori le stesse domande e riflessioni che abbiamo scoperto insieme al gruppo.
Una solida amicizia ha fatto il resto.

Il Nullafacente, a sua detta, è un personaggio che sceglie di essere tale non tanto per ribellarsi al sistema economico e monetario; ma quanto per testimoniare una “libertà oltre qualsiasi legge sociale e psicologica in cui siamo intrappolati.”
Che cos’è per lei, dunque, la libertà? Si può essere liberi dentro il nostro sistema sociale?
Essere liberi è un lavoro.
Essere liberi è un lavoro.
Il primo atto è rendersi conto che non lo siamo. L’educazione, la famiglia, la società, la religione, l’informazione si accaniscono ogni giorno su di noi per “addormentarci”.
Viviamo un sonno da cui nella nostra vita rarissimamente riusciamo a svegliarci, a guardarci intorno e soprattutto “dentro”. Le domande essenziali sono costantemente deviate dalle nostre abitudini, dalla paura di morire, di non essere accettati, dal bisogno di conformarci a ciò che pensiamo che gli altri si aspettino da noi… Così installiamo un chip nella coscienza fino a creare un “personaggio” di noi stessi che non corrisponde alla nostra essenza, ma solo alla nostra personalità sociale.
E’ terribile, ma è così per tutti. Una prigione da cui non si sfugge. Allora il lavoro su noi stessi consiste soprattutto nel comprendere il nostro funzionamento, osservarsi e cercare l’occasione per evadere in cerca di quello che abbiamo perso.
Il Nullafacente “lavora” su queste domande di “fuga”, in realtà è un essere alla ricerca di una via di uscita che si rifiuta di fare ciò che può imprigionarli, fino al paradosso. È un richiamo, è una meditazione sul denaro, sul tempo che sprechiamo, sul consumo, sulla vita e sulla morte che temiamo fino a diventarne schiavi. In un mondo di schiavi, il Nullafacente è un tentativo di libertà.
Ne Il Nullafacente, il protagonista maschile ha una moglie malata di una malattia incurabile. A noi viene in mente una novella di David Foster Wallace, Solomon Silverfish, in cui egli vive la malattia terminale della moglie come una sorta di gioco a due: “Le morse la spalla. Prese la parrucca dal comodino e la lanciò con la scioltezza che viene dall’esercizio sulla boccia di vetro della flebo. Silverfish baciò Sophie sullo sterno. Le diede un buffetto sulla pancia scheletrica. -Cicciona!- sibilò.-”
Lei come ha trasposto la malattia e la morte nella sua messa in scena?
Il Nullafacente alla fine si deve confrontare con la morte della moglie. Era inevitabile che questo tema ci fosse perché solo al termine della vita ci si può ritrovare veramente. L’amore tra Il Nullafacente e la moglie si è manifestato con forza durante le prove ed è qualcosa che li porta a condividere il senso stesso della vita. Naturalmente ci sono momenti di crisi e di allontanamento, ma nella forza della scrittura di Michele, questi momenti rafforzano ancora di più il senso di una condivisione straordinaria che nella vita normale è quasi inesistente se non a livello emotivo. L’amore è una delle domande fondamentali del lavoro anche se la parola “amore” non viene mai pronunciata. La malattia terminale della moglie è lo strumento che permette ai due di comprendere meglio chi sono e perché stanno insieme con le regole che si sono dati. La malattia è stata affidata ad una grande attrice, Silvia Pasello che, anche con leggerezza, ne ha tratto un percorso sia fisico che emotivo molto importante e toccante. Per me è stato facile dirigere questo percorso dentro il lavoro collettivo, lavorando non tanto sulla “rappresentazione esteriore” della malattia, ma sul senso profondo che la fine biologica di una persona rappresenta per sé e per chi le sta intorno.

Lei ha alle spalle una lunga e feconda carriera registica. Dagli anni Settanta svolge questa professione, dopo aver letto Jerzy Grotowski ed essersi formato con Eugenio Barba. Quanto pensa di essersi distanziato, come artista, dal Teatro Povero di Grotowski?
Grotowski per me è stato un maestro del “pensiero”, non di teatro. L’amicizia e le notti a parlare di filosofia e di politica sono state un grande dono che mi porto dietro, così come la sua etica e la sua disciplina nell’affrontare i problemi, anche quelli pratici che condividevamo. Il mio teatro ha cercato tante strade diverse, dai grandi spettacoli fino a quelli più essenziali come Il Nullafacente.
La qualità e il rigore non hanno bisogno di aggettivi o di seguire una moda o una ideologia teatrale. E su questo Grotowski era totalmente d’accordo. Ogni spettacolo è un’avventura e una ricerca di senso da fare con gli strumenti giusti, senza bisogno di trovare una definizone. Lavorare con gli attori e poi incontrare gli spettatori sono “atti” che ti obbligano ogni volta a cercare strade nuove e a porti domande con la mente, anche con il cuore. Per andare dove non sai, devi passare per ciò che non conosci – dicevano gli antichi – e ogni volta cerco di ricordarmelo perdendomi per poi ritrovarmi diverso.

Come prevede il futuro del Teatro Era di Pontedera? Pensa che l’identità di Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale sia rimasta e rimarrà intatta?
Niente rimane intatto, per fortuna.
Molte volte come CSRT, in 43 anni di esistenza, ci siamo trovati davanti a bivi importanti.
A volte per scelta, a volte per le circostanze.
Con i cambiamenti bisogna dialogare cercando di non perdere “l’energia delle radici” e mantenendo il sapore di “anomalia necessaria” che è sempre stata, a volte più, a volte meno, il senso della nostra esistenza.
Eravamo una famiglia e credo che siamo rimasti tali, anche se le circostanze nuove a volte ci impongono modi e scelte difficili.
Non so se saremo per sempre un Teatro Nazionale, il nome o la targa sulla porta non ci hanno mai interessati e non sappiamo bene che cosa ci riserverà il futuro.
Tuttavia noi continuiamo a cercare e, ad esempio, Il Nullafacente è un esempio di quella vecchia anima che abbiamo sempre cercato.
Certamente ci sono dei limiti: ad esempio i nostri rapporti internazionali, maturati con maestri e gruppi teatrali di tutto il mondo, dovrebbero essere molto più sviluppati e soprattutto la relazione con le nuove generazioni che sono sempre state il nostro punto di riferimento.
A volte ci riusciamo, a volte non possiamo riuscirci per mancanza di risorse che, paradossalmente, da quando siamo Teatro Nazionale, non sono aumentate per il CSRT.
Vedremo che cosa accadrà per il futuro, certo è che rimaniamo svegli per osservarci e per capire.
Il rapporto con l’esperienza del Teatro della Pergola è stato ed è un esperimento molto interessante sia per un incontro con l’altro che non conoscevamo, sia per i rapporti personali che si sono creati con i colleghi di Firenze.
Tenere tutto questo in equilibrio e farlo camminare verso il futuro è un’impresa che abbiamo accettato di realizzare.
Oggi è ancora presto per comprendere dove potrà portarci.