Listen to me Marlon: i diari di MB in 3D

[rating=4] Quasi un busto antico (di colore bianco gesso), il volto vibra costantemente, si anima e si scompone. Una presenza viva e immateriale, un vero spettro.

Fin dall’introduzione i piani si confondono: si documenta effettivamente un’immagine elaborata al computer, ma viene meno il referente reale. E quella che parla è una fantasmagoria, generata ex-novo da stringhe e calcoli matematici. Il processo di creazione è reale, ha una sua materialità (il supporto tecnico), ma ciò che viene creato è pura finzione: non esiste se non nella dimensione virtuale, ovvero in quella mentale di chi osserva, degli spettatori in sala.

È il cinema delle attrazioni redivivo (come pure la star lo è) ed è un ritorno alla caverna platonica, che mette in crisi lo statuto stesso del documentario. Si filma una finzione frutto di un processo reale. È una fiction nel documentario, un documentario nella fiction, o si è andati addirittura oltre?

I nuovi media conducono all’esplorazione della zona di confine tra i due generi, senza che le immagini sullo schermo possano essere inconfutabilmente attribuite ad uno dei due. Si è giunti a documentare la presenza dei fantasmi, a rendere la proiezione esistenza concreta (documentabile appunto). Sottraendo gli spettri dalla dimensione immateriale, effimera e mentale, per trasportandoli, di fatto, nel mondo dei vivi.

Rieccheggia lo slogan dello scorso anno: #Realityismore! La realtà è di più. Di che cosa? Di sé stessa e del suo opposto: è divenuta reificazione della fantasmagoria, mise en abîme del dialogo tra realtà e finzione.

Domenica 29 novembre, Cinema Odeon, ore 21:30. Dopo la proiezione di Calling Ukraine (leggi la recensione), il Festival dei Popoli presenta, in prima italiana, Listen to me Marlon (2015), del regista inglese Stevan Riley,documentario che raccoglie immagini di repertorio e centinaia di ore di registrazioni audio, operate dallo stesso Marlon Brando, come diario autobiografico, ricreativo e postumo. Il montaggio segue lo schema di una particolare narrazione: il filo conduttore è dato dalla voce di Brando che ripercorre tutta la sua vita, con intime riflessioni su se stesso, la politica, l’arte, la felicità.

Partendo da un fatto di cronaca (la sparatoria che ha visto il figlio maggiore imputato di omicidio), il film opera un flashback e ripercorre l’intera storia di questo tormentato “anti-divo”. Gli studi con Stella Adler, il teatro che vince la timidezza, le donne, l’amore per Tahiti, i rapporti controversi con registi come Francis Ford Coppola e Bernardo Bertolucci, l’impegno politico a favore dei neri, degli indiani, delle minoranze, fino alle tragedie familiari: l’onnipresente spettro High-Tech che porta il suo volto, racconta tutta la vita, i sogni, le amarezze, i successi, i dolori e le delusioni. Tutto. In un flusso di coscienza perenne, insieme uditivo e visivo. Il 3D appare ora in casa, sullo schermo di un televisore, ora isolato nella sua dimensione virtuale; ma è lui il regista che conduce la narrazione. E invita Marlon (e il pubblico) ad ascoltarlo, ad ascoltarsi. Una voce dall’al di là, che analizza l’esistenza di un essere umano, per ricavarne una sorta di massima finale: “non aver paura della morte, lasciati andare … e dormi”. È tutto un sogno, che termina con un infinito sonno. Reale, virtuale, spettrale.

Nonostante in alcuni momenti si percepisca un certo narcisismo apologetico, e forse persino una punta di delirio megalomane, l’emozione è garantita. Il percorso di vita che si pone davanti agli occhi dello spettatore non è quello di un divo, ma di un qualsiasi essere umano, in cui è facile immedesimarsi.

Listen to me Marlon

L’anima è separata dai singoli successi e fallimenti, grazie ad una dimensione assoluta e fluttuante. Un non-luogo dove ciascuno è se stesso e, contemporaneamente, un’entità impalpabile e universale. Non contano le opere, ma la gratuità di un tramonto: quel tramonto che Brando amava ammirare a Tahiti. E che lo sollevava dalle incombenze dell’incivile e famelica “civiltà” mediatica.

La dimensione introspettiva, che definisce l’intero film, è la zona salvifica (lontana da psichiatri, alcool, TV) in cui ci si può ristorare. Guarisce dal dolore incommensurabile che tragedie, come il suicidio di una giovane e amabile figlia, procurano.

“Just let it go” e davvero, dopo un caloroso e meritato applauso, ci si alza in silenzio per lasciare la sala, ammutoliti dalla profondità e dalla bellezza di questo scavo interno. Niente da aggiungere alla sinfonia sommessa di un’anima piccola e immensa, alla filosofia cosmica e intima che qui viene esposta. Troppe parole in una recensione per cercare di spiegare qualcosa che è meglio vedere sullo schermo, digerirla nell’intimo e tacere. Portarsi dentro quell’universalità, senza che si possa realmente contare. Ci vediamo al cinema!

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here