
[rating=3] «Io sul circo non so niente; mi sento l’ultimo al mondo a poterne parlare con conoscenza di storia, di fatti, di notizie. E, d’altra parte, perché no? Anche se non so niente, io so tutto del circo, dei suoi ripostigli, delle luci, degli odori e anche degli aspetti della sua vita più segreta. Lo so, l’ho sempre saputo. Fin dalla prima volta si è manifestata subito una totale adesione a quel frastuono, a quelle musiche assordanti, a quelle apparizioni inquietanti, a quelle minacce di morte». Così un grande amante esegeta interprete del circo, Federico Fellini, confessava la sua totale refrattarietà ad una conoscenza basata su date, fatti, cifre, per aderire ad una sapienza esistenziale e vitale e spesso inconoscibile. Chissà come il regista di Amarcord, che si divertiva a classificare l’umanità in clown bianchi ed augusti, avrebbe etichettato Raffaele Viviani – l’autore, quasi cent’anni fa, di Circo Equestre Sgueglia – ed il regista di questo allestimento, Alfredo Arias. Io penso che li avrebbe senza dubbio annoverati entrambi nella genìa degli augusti, che del mondo sono l’anima folle e tenera e triste.
E quello scintillìo di falsi lustrini che s’alterna colla lacrima e la risata, quel lasciarsi vivere nel mezzo della piazza Mercato, in una Napoli che – quando Viviani ne ferma il tempo e la vita – rimane sospesa tra le mille inquietudini e incertezze e irresolutezze delle due guerre, non è forse parodistica, parossistica, macchiettistica deformazione della vita, suprema incomunicabilità declinata in assenza di compassione prima che di dialogo e parola?
Questo è il Circo Sgueglia, signori, venghino, signori, s’offre il doppio spettacolo di ciò che appare – per meno soffrire – e di ciò che è: e non puoi fare a meno di pensare, tu che sei seduto lì e assisti alle peripezie e alle capriole degli uomini e donne di questo vivente carrozzone, laceri, poveri, amari e disperati amanti, che le loro sofferenze son simili alle nostre, e che il tempo che ci divide in fondo è niente: nel ’22, quando don Raffaele scrisse questo testo, l’illusione della bellezza salvatrice del mondo già s’era dissolta nel fango e nel sangue delle trincee del Carso e delle Ardenne e il mondo già presagiva con animo sospeso l’altro sangue e l’altro dolore che il secolo breve gli avrebbe regalato.
Alfredo Arias dona al testo di Viviani la marcia in più di questa – è parola inadeguata, lo so – attualizzazione e rilettura nella banalità, squallore, ordinaria follia dell’oggi, attraverso una mise-en-scène che non può non risentire del teatro di Copi – dal regista così tanto frequentato – e del suo umorismo paradossale grottesco assurdo fatto di musica e dialoghi serrati, en travesti e deformazione emotiva, incomunicabilità ed eccesso di comunione. E poi si trova a guidare un cast di tutto rispetto, il regista francoargentino, di cui cito solo le punte: il più applaudito, Sebastiano Gallo, è il clown Samuele, tanto preso dallo spettacolo e dalla passione circense da non far caso alla moglie Giannina (Giovanna Giuliani, sempre felicemente incerta tra il dramma e il sorriso), che è tanto presa dal toscano Giannetto (Carmine Borrino) da non lavar più neanche il fazzoletto al marito. Zenobia – ch’all’epoca le cronache annotano impersonata da Luisella Viviani – è invece Monica Nappo, che reincarna come in sortilegio l’essenza teatrale di Pupella; il marito infedele di lei, il domatore Roberto, è Francesco Di Leva. Tonino Taiuti è uno straordinariamente efficace Bagonghi; Mauro Gioia è invece il narratore, in frac e cilindro, sorta di viveur degli anni venti, gastone in sedicesima creato da Arias per catalizzar gli eventi così che da «povere gabbane d’istrioni» possano assurgere a livello epico e universale.
E così, di scena in scena, attraverso le belle musiche ora smaglianti ora evocative arrangiate da Pasquale Catalano, la rappresentazione arriva alla sua conclusione, non senza rinvii e rimandi che la fantasia ti suggerisce: e qui ci son le lacrime di Pagliacci, lì ritrovi il candore di Charlot, la passione politica di Brecht, le maschere di Pirandello… tutto lo scorso secolo che ti ritorna in mente, suggerito da un gesto, da una nota, da una battuta: e più non sai dove finiscano i ricordi e la vita ricominci. E il ritrovarsi dei protagonisti – al di là della visibile forzatura dello spezzare il pane e del mangiare insieme, che vorrebbe rinviare a ben altro riconoscersi – non è in fondo che accentuare, da parte del regista, ciò ch’era già nel testo di Viviani: perché ci si ritrova solo se ci si perde, solo se si accetta, infine, il senso vero della (con)passione: «e ogni dolore sarà consumato e ogni lacrima sarà asciugata… perché le cose di prima sono passate».
Bellissima recensione! Peccato non riuscire a vederlo questo spettacolo