Madre Courage, perché il mondo veda (e si ravveda)

Torna al Teatro Bellini, dopo il Napoli Teatro Festival, "Madre Courage e i suoi figli" di Bertold Brecht, con Maria Paiato per la regia di Paolo Coletta

“Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”, diceva don Abbondio, ed è proprio vero, anche se talvolta è solo di fronte alle circostanze che uno ha la riprova, con certezza, di averlo o no, questo coraggio di cui tanto si parla: è dal centro degli anni bui del secolo breve che la vivandiera Anna Fierling, nota col nome di Madre Courage, gira l’Europa e il mondo tirando la sua carretta e perdendo gli sfortunati figli un po’ dovunque e in mille modi, da quando Bertold Brecht ne cantò le gesta non certo eroiche – l’eroismo, certo, non s’addice a Courage – ma obiettivamente coraggiose poco prima d’una delle catastrofi che segnò il secolo breve.

Qui, al Teatro Bellini di Napoli in questi giorni, Anna di Madre Courage e i suoi figli trova l’ennesima sua incarnazione in Maria Paiato con una energia ed una determinazione non comuni, donando al personaggio, così famoso, così studiato, così eternamente sfuggente – parafrasando l’Autore – una sua naturalezza tutta propria, un carattere carnalmente terrestre, un fine umorismo che attraversa trasversalmente il palcoscenico per arrivare fino a te, comodamente seduto all’asciutto sulla tua bella poltrona rossa mentre fuori, fuori dal teatro, intendo, imperversa la bufera. Perché la bufera c’è sempre, fuori dal teatro, a volte, solo a volte, entra anche dentro: c’era anche allora, la tempesta, quando a Brecht venne l’idea di scriver di questa vivandiera, la cui idea iniziale, derivò, certo da Grimmelshausen e dalla sua Landstörzerin Courasche, di cui ammirava la descrizione della guerra per ciò che era, senza orpelli eroici e priva della retorica del gesto risolutivo e totalizzante.

Così, durante il forzato esilio in Danimarca, a Svendborg, tra il 1938 e il 1939, Bertold Brecht scrisse Madre Courage e i suoi figli, andato poi in scena per la prima volta a Zurigo nel 1941: soffiavano, dunque, forti e tesi, potenti venti di guerra, a ridosso del settembre del ’39, e di questo clima di così lugubre attesa rimane, certo, traccia nella scrittura dell’Autore, a cercar bene sotto l’umorismo amaro, sotto i versi delle canzoncine volutamente orecchiabili cui misero mano, nelle varie versioni, prima Paul Burkhard allo Schauspielhaus di Zurigo, poi Paul Dessau al Berliner Ensemble. La lunga guerra dei trent’anni, l’infinito inverno della Germania – ma pure dell’Ungheria, della Polonia, dell’Italia, della Francia, di tutt’Europa – è attraversata, con determinazione pari solo all’ingordigia, da questa vivandiera e dal suo carro: nell’interminabile suo itinerare tra capponi e minestre, traffici leciti e illeciti, passa indenne, come la leggendaria salamandra, in mezzo al fuoco e alle tragedie.

Così, questa storia, costruita con severità e leggerezza insieme sul filo sottile che si tende tra umana simpatia e disgusto, tra amor materno e profitto capitalistico è, da allora, monumento contro la Guerra, contro il fantasma di ogni guerra, che sempre si costruisce, vive e prospera ripetendo anancasticamente lo stesso identico schema. Madre Courage diventa, da allora, modello ed esempio, segno e strumento che, in perfetta pienezza esprime il concetto di teatro epico del suo autore in cui l’eroe non è più l’archetipo positivo del teatro borghese, non indirizza l’ideale dell’ego verso il quale, pur con tutte le contraddizioni della modernità, chi aveva la ventura di sedere in platea poteva, bene o male guardarsi e identificarsi, o almeno avere una pietra di paragone con cui emotivamente confrontarsi.

Seguendo la vicenda di questa strana donna, continuamente interrotta dal melos che diventa potentissimo mezzo di straniamento e di interruzione del flusso emotivo, l’ambiguità diventa misura della presa di distanza necessaria per realizzare, più che la catarsi, ormai ritenuta inutile, se non dannosa, la comprensione attiva della mondo e delle cose, della storia, dei fini ultimi di questa, posto che ce ne siano. Paolo Coletta immerge le dodici scene che compongono la vicenda in un medium fatto di nebbiolina sottile che ne restituisce la visione come attraverso una estrema ma finissima pulviscolarizzazione, un pointillisme che accentua la voluta staticità e la fredda artificiosità del gesto, che attenua ogni cangiantismo e frettoloso movimento.

I colori degli abiti (disegnati da Teresa Acone) sono spenti, riflettono la desolazione degli animi, dei tempi, dei luoghi, in una tristezza che non è (solo) infelicità ma che diventa, alla fine, come diceva Victor Hugo, “felicità d’essere tristi”, paradosso vitale d’una malinconia mesta e senza strepiti, dove anche la risata, come pure qualche vivace macchia di colore, il rosso soprattutto del guizzare d’una bandiera, del riflesso d’una pelliccia, non sono altro che conferma del grigio soffocante e claustrofobico che avvolge il mondo e le cose. Rinuncia perfino al carro, il coraggioso regista, iconico emblema della celebrità del personaggio, forse proprio perché abusato simbolo della fama della protagonista, quasi immagine del secolo che fu, sostituito da un ben più sobrio e anonimo baule nero che viene spostato a mano, con qualche fatica, di volta in volta, a superare spazi e tempi, cavalcando anni e chilometri.

La scena ideata da Luigi Ferrigno, per altri versi buia e anonima come dev’essere, conducendoci in un distopico luogo senza misura e senza età, colpisce per la presenza, sul fondo, d’una sorta di telone oscuro ma non opaco, che in parte, dunque, e approssimativamente, riflette la luce e il mondo sulla sua ombrosa superficie, (ri)creando uno spazio pallido e confuso, ma che porta, in alto, al centro, ben evidente sopra le vicende umane, uno slabbrato ma compiutamente rotondo foro, come lo squarcio lasciato dal poderoso proiettile d’una bombarda. Attraverso questo foro s’intravede – alla fine dello spettacolo la tela cala completamente a terra – una sorta di occhio, la cui pupilla, all’inizio di ogni scena, s’illumina di rosso intermittente, mentre una voce fuori scena legge le didascalie di Brecht che introducono allo svolgimento della vicenda: “voce accecante della Storia”, dice Coletta.

Tutta la scena, foro centrale compreso, a me ha ricordato, nella potenza visiva che evoca, il mondo ancestrale e obliquo di Hieronymus Bosch, le inquietudini e turpitudini umane che si riflettono, come un infernale comporsi di un universo delirante e visionario, sulla tela oscura, in cui si susseguono omicidi e gozzoviglie, egoismi ed eroismi, amori e stupri, feste e funerali, balli e canzoni, tutto un mondo maligno e ambiguo, che è la nostra vita riflessa sul palcoscenico teatrale, fino al luminoso tunnel finale, del tutto simile all’Ascesa all’Empireo che sta a Venezia. Visioni, metafore, in cui ritrovare noi stessi e il mondo nostro, in un perenne rinnovare significati e pregnanze adatti ai tempi, com’è dei veri capolavori. E c’è, certo, allora, la (non) scontata condanna della guerra, di tutte le guerre, quelle “calde” come le due mondiali e le infinite locali che hanno ammorbato e ammorbano l’aria del povero mondo nostro, e quelle “fredde”, come la prima, conclusa con la caduta del muro di Berlino, l’effimera pace durata ben poco, con gran felicità delle infinite madri Courage in giro per il mondo, e la seconda cui ci stiamo avviando, che stiamo già vivendo secondo alcuni, basata sulla conquista e il controllo del cyberspazio.

Diventa facile, poi, imbattersi nelle tante icone della nostra contemporaneità, ecco il gesto stupidamente terrorista compiuto dall’eroico Eilif (Andrea Paolotti), che viene giustiziato per aver ucciso un contadino mentre ruba il bestiame, cercando di ripetere lo stesso atto per il quale è stato elogiato come eroe in tempo di guerra, ecco l’onestà miope e stupefatta di Schweizerkas (Roberto Pappalardo), tradito e rinnegato dalla madre per un pugno di stracci, ecco la retorica elitaria dei potenti che celebrano in pompa magna il funerale del generale Tilly, ecco il populismo piagnone ipocrita e interessato del Cuoco (Giovanni Ludeno), la fede miscredente del Cappellano (Mauro Marino), il distacco cinico della prostituta Yvette (Anna Rita Vitolo). Alla fine, con la morte di Kattrin la muta (Ludovica D’Auria), che troverà frettolosa sepoltura, Madre Courage torna a tirare il suo carro, non ha imparato nulla dalla lezione della storia, non vede nulla, al suo autore importa invece che, a vedere, sia il pubblico: credo, tutto sommato, che questa messa in scena renda ragione all’Autore che, ovunque si trovi, non penso, francamente, se ne dorrà.

PANORAMICA RECENSIONE
Regia
Attori
Drammaturgia
Allestimento scenotecnico
Pubblico
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madre-courage-perche-il-mondo-veda-e-si-ravvedaMadre Courage e i suoi figli <br>di Bertolt Brecht <br>traduzione Roberto Menin <br> <br>con Maria Paiato, Mauro Marino, Giovanni Ludeno, Andrea Paolotti, Roberto Pappalardo, Anna Rita Vitolo, Tito Vittori, Mario Autore, Ludovica D'Auria, Francesco Del Gaudio <br> <br>musica Paul Dessau <br>scene Luigi Ferrigno <br>costumi Teresa Acone <br>light designer Michelangelo Vitullo <br>drammaturgia musicale e regia Paolo Coletta <br> <br>produzione Società per Attori e Teatro Metastasio di Prato <br>in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival - Napoli Teatro Festival Italia <br>durata 110 minuti senza intervallo <br>in scena dal 19 al 24 novembre 2019 <br>Napoli, Teatro Bellini, 20 novembre 2019