
Per una volta, l’antico e glorioso Teatro San Carlo di Napoli lascia la musica cui è avvezza per un salto nel favoloso mondo dei ruggenti anni 20: è di scena il jazz, il ritmo sincopato, George Gershwin e il suo Lady, be good, musical d’enorme successo e le cui canzoni sono diventante nel tempo cavallo di battaglia di innumerevoli cantanti americani e non, per cui si può dire che pezzi come Fascinating Rhythm, The man I love o la stessa canzone che dà il nome all’intero lavoro, siano entrati nel nostro vissuto quotidiano, la colonna sonora personale di ognuno di noi, il nostro privato jukebox della memoria dove di volta in volta, a seconda dell’umore o del capriccio, attingiamo a piene mani.
La scelta è caduta su una produzione spagnola di gran successo internazionale, che il madrileno Teatro della Zarzuela ha esportato in tutta Europa, che si avvale della regia di Emilio Sagi, della scene di Daniel Bianco, dei costumi di Jesùs Ruiz e delle coreografie di Nuria Castejon che confezionano con gran classe uno spettacolo godibile, elegante, fascinoso e molto molto cool, poco o niente a che fare, in verità – sarà per l’effetto revival che positivamente più spesso di quanto crediamo deforma il passato – con la celeberrima definizione di jazz dello stesso Gershwin, per il quale “quando lo si esegue in altro Paese (diverso dall’America n.d.r.) suona falso… È un genere di musica molto energica, rumorosa, impetuosa e perfino volgare”.
E allora, gli anni Venti nell’isola incontaminata e felice dell’America dell’espansione e della follia, prima della rovinosa caduta, è bene ricordare, corrispondono agli anni Venti, in Italia e in Europa, dell’affermazione dei mostri totalitari che inevitabilmente porteranno il mondo alla rovina, il 1924, in particolare, è l’anno del delitto Matteotti, dell’Aventino, della nascita della radio in Italia. In quello stesso anno, nel mondo della musica, muore Giacomo Puccini, lasciando Turandot orfana e incompiuta, Respighi scrive i Pini di Roma, Casella mette in scena La giara, balletto tratto dal teatrante più à la page del momento, Luigi Pirandello, che quell’anno, per parte sua, porta in teatro Ciascuno a modo suo, Richard Strauss presenta a Dresda quel capolavorino d’autoritratto di famiglia in un interno che è Intermezzo, mentre Alban Berg lavora a Wozzeck.
Non fu certo avaro di musica, quel 1924, anche molto diversa, com’è ovvio, con modalità creative al tramonto e altre giovani e vitali che si sarebbero ancor più affermate in seguito, in particolare, tuttavia, per Gershwin quello fu un anno particolarmente fecondo e felice: il 12 febbraio viene eseguita per la prima volta American Rhapsody, in seguito ribattezzata, meno significativamente, a parer mio, Rhapsody in Blue – scritta in meno di tre settimane, dice la leggenda – che suscita enorme scalpore. Si discuteva molto, infatti in America, su quale avrebbe dovuto essere la Nuova Musica Americana, per competere degnamente con la musica europea che, esattamente in quel momento, era quella che abbiamo detto.
La “nuova musica”, secondo i più, secondo color che sanno, non poteva non nascere che in diretta discendenza dalla tradizione classica, il jazz era solo una forma di musica popolare di consumo chiassosa e senza futuro. L’operazione clamorosa di Gershwin, il suo lascito al mondo, fu proprio questo: indicare una strada nuova, dare dignità a quella che sembrava solo puro intrattenimento, sconvolgere i piani a tavolino dei programmatori del futuro, far vincere, ancora una volta, la passione e l’arte sulla speculazione accademica. Significativamente, alcuni dei più importanti musicisti del tempo, Fritz Kreisler, Igor Stravinsky, Sergej Rachmaninov, Leopold Stokowski, diventato padrini di questa musica strana e tutta nuova, presenziando all’esecuzione al pianoforte dallo stesso autore, all’Aeolian Hall di New York.
Lady, be good viene immediatamente dopo, nasce dall’esigenza di dar voce e canto a questa nuova musica, ritmo e volto umano all’eterna astrazione dell’arte, farla diventare materia fruibile dal pubblico di massa che – nuovo concetto anche questo – sarebbe diventato il prossimo consumatore di quella scintillante e liquida materia, attraverso i moderni strumenti di diffusione, fonografi e radio. Così, insieme al fratello Ira, Gershwin scrive alcune memorabili canzoni, prima di tutto quel The man I love che poi, successivamente, verrà escluso dal musical – nell’edizione del San Carlo, preziosa anche per questo, è stata reinserita – ma soprattutto viene creata, attorno alle canzoni, una storia che, benché esilissima, funge da perfetto trait d’union tra i numeri musicali.
Il 1° dicembre di quel fatidico 1924, presso il Liberty Theater, a Brodway, debutta Lady, be good, scritto da Guy Bolton e Fred Thompson, di cui George Gershwin compone le musiche e il fratello Ira i testi delle canzoni. Il successo è folgorante, il musical andrà in scena per 330 spettacoli, chiudendo il 12 settembre dell’anno successivo, interpreti ne sono Fred e Adele Astaire, fratello e sorella ballerini, di gran successo in quel momento e che diventano il passepartout perché il musical arrivi veramente a tutti.
La vicenda dei due fratelli Dick e Susie Trevor, sfrattati per morosità dalla casa paterna, viene completamente immersa dal regista Emilio Sagi, con la complicità della matita di Daniel Bianco, in uno scintillante e lucido ambiente che risente delle tendenze stilistiche di quegli anni: così, nelle linee ondulate e sinuose dei motivi floreali dell’esterno della casa dei Trevor, a Beacon Hill, prevalgono ancora le influenze Art Noveau, dall’estetica naturalistica nelle belle vetrate colorate del portone della casa, che poi diventa l’entrata della villa Vanderwater, dove si svolge la festa in cui i fratelli s’imbucano.
La parte centrale dell’esile trama si svolge proprio durante la festa, con gli invitati vestiti da Jesùs Ruiz e diretti dalla coreografa Nuria Castejon, in cui troviamo, oltre ai protagonisti, il Coro, diretto da Gea Garatti Ansini, e il Balletto del San Carlo, diretto da Giuseppe Picone; diciamo che, se c’è un neo in questa festosa e invitante messa in scena, questa riguarda proprio il Coro che, con ogni probabilità incolpevolmente, vuoi per l’esiguità del numero dei coristi in campo, vuoi per un qualche difetto di coinvolgimento nel ritmo, lasciava spesso sguarnita la scena, in contrasto non piacevole con l’animazione e il ritmo della musica, per cui l’effetto festa alla Great Gatsby, inevitabilmente e deprecabilmente, si perdeva un po’.
Il secondo atto, la scena ambientata nella Hall dell’Hotel Robinson ci restituisce, invece, all’atmosfera del gusto Déco, col sapore suo inconfondibile d’aguzza modernità che stempera l’opulenza e la pretenziosità della forma in un richiamo a un esotismo fantasioso, privo d’ogni enfasi romantica, come la musica, nel ritmo dell’evocazione geometrica della linea sghemba, spezzata, ritmata. Perfetto contraltare, dunque, alla musica, che l’Orchestra del Teatro, sotto la direzione di Timothy Brock, sorprendentemente ci restituisce in tutte le sue più riposte, sottili, intime sfumature, togliendo, una volta per tutte, se ce ne fosse bisogno, il jazz dall’ipoteca di musica elementare e grossolana in cui tanti, anche non volendo, tendono a rinchiuderla.
Così, complessivamente di buon livello risulta anche il cast, da citare i migliori: Jeni Bern è una Susie Trevor dalla notevole voce e dalla gran verve, come dimostra in una sensibile e pensosa versione di The man I love, e che riesce a trascinare anche il “fratello” Dick, voce e fattezze di Nicholas Garrett, in una prestazione sostanzialmente sufficiente. Ottimo Troy Cook, un Watty Watkins di prim’ordine che interpreta la canzone che dà il nome al musical, Lady, be good in modo veramente esemplare. Molti applausi anche a Carl Danielsen, Jeff Withe dalle molteplici versatilità che, oltre ad offrirci un Fascinating Rhythm da brividi, si esibisce anche al pianoforte in scena e poi, nel secondo atto, in un assolo di tip-tap che, nostalgicamente, piacevolmente, entusiasticamente, ci riporta al primo interprete del musical, chiudendo idealmente il cerchio aperto novantacinque anni fa.