Ma il naufragar m’è dolce nell’Abisso di Davide Enia

L'attore-scrittore siciliano racconta il suo personale "naufragio" lampedusano

Davide Enia si è fatto conoscere per la forza trascinante delle sue parole, per il gesto sempre vibrante e mai eccessivo, per i testi dove la drammaturgia esplode con forza su tutto l’apparato scenotecnico. E’ anche il caso de L’Abisso, lo spettacolo tratto dal suo ultimo testo Appunti per un naufragio edito dalla Sellerio, andato in scena al Teatro India. Un viaggio prima di tutto interiore alla riscoperta delle proprie radici, proprio nel mezzo di un incontro-scontro con masse d’uomini e donne che quelle radici sono stati loro malgrado costretti a sradicare.

Ed è il mare che lega in qualche modo i destini di Davide a quelli dei suoi amici lampedusani, a suo padre, all’amato zio, un mare lungo, lento, ma anche crudele, il Mediterraneo, sopra il quale continuano a galleggiare corpi, irrimediabilmente inghiottiti e poi per sempre sospesi nell’abisso. Si parte da qui, dal pianto composto di un enorme sommozzatore che ogni giorno quei corpi li raccoglie dall’acqua come una nera messe, dove ogni stagione, senza sosta, porta il suo macabro raccolto.

Davide Enia e Giulio Barocchieri ne L’Abisso

Non è facile parlare di un tema ostico e controverso come quello degli sbarchi in Sicilia, a Lampedusa, un’isola diventata crocevia umano di destini, non sempre facili a intrecciarsi, ma Enia lo fa con garbo, raccontando il suo di naufragio. E’ un racconto emozionale, ma non da lacrimuccia facile studiata a tavolino, custodisce piuttosto il fascino di un’antica nenia, accompagnato con altrettanta maestria dalle corde di Giulio Barocchieri, tanto che si potrebbe quasi chiudere gli occhi e semplicemente ascoltare. Ma non è facile l’ascolto di certe vite spezzate, violate, strappate quasi all’anima con una brutalità che stentiamo a riconoscere come “umana”, Enia ci racconta allora il suo di disagio, quello di naufrago perso anche lui fra quelle vite così defraudate, di come la strana reazione al dolore lo porti a fare marmellate e a trincerarsi dietro quello stesso mutismo che lo aveva allontanato dagli affetti più cari. Perché l’essere umano è una strana macchina, facile a incepparsi.

Ma Davide Enia è maestro della parola e attraverso il suo discorso di uomo che si riscopre figlio, in un improvvisato viaggio con suo padre da cui è diviso da un silenzio profondo quanto quel mare, riesce a unire i punti di quella sospensione galleggiante, di parole non dette, di approdi mai raggiunti. Questo ponte fra il vissuto personale dell’artista e il volto cambiato di una terra investita dalla disperazione d’altri ci porta a camminare con lucida consapevolezza su quel ponte, ancora impreparati forse, ma decisi almeno a non aggrapparci più alle corde del pregiudizio. Un monologo intenso, bellissimo, nudo e crudo nel suo allestimento volutamente povero, dove a vincere, nel bene e nel male, è solo la storia, non tanto quella che il Davide uomo ci ha raccontato, ma piuttosto quella che abbiamo deciso di ascoltare. Dal 9 al 28 Ottobre al Teatro India di Roma.