
Sottotitolo: l’attrice romana regala alla Garbatella una performance unica con le poesie di Belli e Marè
Quanta bellezza e stimoli cerebrali possa generare il teatro è un fatto che conosce bene chi lo frequenta. Eppure dopo tanti anni di teatri e scritture, quando nuovamente si schiude il piccolo miracolo della conoscenza, si genera in me quasi una gioia puerile. Se poi lo spettacolo è pure una di quelle performance da memoriale, la combo mi investe di felicità. Forse innaturale, data l’anima non poco spinosa di chi scrive, che sovente fa “puncicare”, per dirla alla romana, pure le recensioni.
Ma stavolta la “spina” non “s’incapriccia d’esse rosa”. Anzi abbandona ogni asperità, per godersi appieno una lettura scenica che è un gran bel pezzo di teatro. Uso non a caso le parole di Mauro Marè, poeta “neodialettale” che proprio lo spettacolo di cui sopra mi fece scoprire. Parliamo de L’urlo di Roma, in scena al Teatro Palladium il 17 novembre 2024 in seno al festival Flautissimo (che stagione quest’anno!) e che ha visto protagonista l’immensa Paola Minaccioni nell’interpretazione delle poesie di alcun fra i più grandi autori romaneschi.
Belli, Trilussa Pascaralla, Zanazzo sono notoriamente il quartetto più noto. Ma la Minaccioni sceglie un’accoppiata diversa e inaspettata: Giuseppe Gioacchino Belli e il suo erede contemporaneo: Mauro Marè. Poeta notaio che inizia a scrivere tardi, ma poi non smette più. Mi scopro felice della mia ignoranza sulla sua parabola umana e poetica. Mi ritaglio del tempo per scoprilo, leggerlo, amarlo da buona romana custode del proprio vernacolo. Lo faccio grazie all’Urlo di Roma, in cui Paola dà corpo e voce anche ad alcune fra le poesie più note e non del Belli, coinvolgendo la platea del Palladium in un partecipato evento culturale, appassionato come un derby.

Sento i miei vicini di poltrona ripetere le poesie, applaudire, ridere divertiti e paghi dei versi più insolenti. È tutto francamente bellissimo. Protagonista indiscussa assieme all’interprete eccezionale, sempre lei, quella Roma cinica e accogliente, capricciosa, cadente, eppure dopo secoli ancora la più amata. Che piaccia o no al resto dello stivale, che pure soccombe tutto, sempre e comunque, al suo innegabile lirismo, che sia comico o tragico poco importa.
Mi colpisce in tal senso la scelta delle poesie, soprattutto dal Belli, che ritagliano il profilo di una città multiforme e immutabile al tempo stesso, dove trovano spazio comari, vecchine, mariti cornuti e tanto altro. Er viaggiatore, Er giorno der giudizio, Li Manfroditi, La poverella, Er confessore, L’istoria romana, solo alcuni dei titoli che spero di ricordare, ma resta ben viva in ogni caso l’interpretazione della Minaccioni, che stacca le parole dalla pagina, le plasma e le crea davanti al nostro sguardo, laddove l’orecchio era già rapito.
Le fa gioco l’accompagnamento musicale, che in realtà è ben più che un vibrato di sfondo. Diventa anzi personaggio pieno della scena, intrecciando il ritmo cadenzato degli stornelli con Bowie, Simon&Garfunkel e forse, se l’udito non mi inganna, anche con Jeff Buckley. Merito del trio Valerio Guaraldi, Claudio Giusti e Gianfranco Vozza, rispettivamente chitarra, sax e percussioni. Chiosa lo spettacolo un racconto del Zanazzo: “La torta”. Piccola gradita sorpresa. Per puro caso avevo avuto la fortuna di ascoltarlo, poche sere prima, proprio dalla Minaccioni, ospite de L’Orchestraccia nel loro concerto-spettacolo al Teatro Olimpico. Ebbene questo bis inaspettato mi ha offerto la ciliegina, tanto per restare in tema. Dirò di più, potrei sentirlo rileggere dalla Minaccioni in loop e sarebbe sempre fantastico come alla prima fruizione. Che serata ragazzi!