
[rating=2] Se il cinema di Rainer Fassbinder è tenerezza grottesca, angoscia invisibile, contrasti naturali, tuttavia inaccettabili, Latella con Ti regalo la mia morte, Veronika va in direzione opposta. Se l’estetica di Fassbinder, pittorica e impeccabile, nasconde una materia grigia difficile da identificare, ma presente, come un bellissimo abito di seta macchiato; al contrario l’opera di Latella, purtroppo, si rivela fastidiosa, scoordinata e allo scoperto.
Il burlesque osceno in Fassbinder, o fuori scena, riesce ad aderire alla storia, senza farla respirare. La semi-nudità degli attori nella versione presentata al Teatro Manzoni di Pistoia dal 18 al 20 dicembre, invece, sfiora il volgare televisivo – che non sciocca ma diventa motivo di risolino. La musica elettronica scelta da Latella è giusta, i bassi e le luci stroboscopiche perfette per il delirio della morfinomane Veronika. Dispiace dirlo, perché per il regista campano proviamo stima e ammirazione. ll burlesque diventa però burla: i gorilla onnipresenti alterano continuamente i toni, da farseschi a semi-comici, togliendo spazio alla dimensione intima e universale della protagonista.
Ma nemmeno Monica Piseddu (fresca di Premio Ubu) convince, fatta eccezione per qualche raro frammento in cui sembra volare e perdersi sulle parole; la sua varietà timbrica appare limitata, così come lo sono l’espressività facciale e corporea. Niente a che vedere con Rosel Zech (interprete del film Veronika Voss, Orso d’oro al Festival di Berlino 1982): incrocio tra una creatura inerme e un felino adulto, femminile e disperata da far piangere, composta fino a divenire astratta.
La trama in Latella si rarefà, confonde le idee agli spettatori e non scolpisce i momenti importanti, perdendosi in parte nella recitazione degli attori con maschere di gorilla, che dovrebbero/vorrebbero richiamare un coro greco; in parte nei personaggi di contorno, che con voci alterate cercano di dare un senso alla storia. La confusione regna sul palco, e il delirio di onnipotenza di Veronika Voss, la sua personalità avvolgente non splendono come dovrebbero; così come la dipendenza dalla psichiatra Katz e dalla morfina non acquistano il giusto peso.
Il finale è una scena d’appendice, ambientata sotto le chiome di un albero di ciliegio in fiore, che cala lentamente dall’alto – proprio come nel Falstaff firmato Luca Ronconi (anche se in quel caso non era un ciliegio). I personaggi fanno il loro rientro in costume ottocentesco, in un ipotetico aldilà che profuma di Cechov e del suo Giardino dei ciliegi, in un momento etereo, forse il più organico di tutto lo spettacolo.
Non sappiamo perché la palpitazione sottile dello stile fassbinderiano, unita alla voragine dietro ogni inquadratura, canzone o sguardo allucinato sulla realtà, non siano stati contemplati dalla versione di Latella.