
[rating=4] Assistere ad uno spettacolo al Teatro dei Documenti a Roma, da quella parte di via Nicola Zabaglia dove non va nessuno, anche perché è pure contromano, è un’esperienza mistica. Un boccascena schiacciato sui gradoni oltre i quali si staglia un secondo livello di piano, il tutto mirabilmente “incastrato” fra volte da caverna platonica e fasciato in una nuvola di bianco, uno spettacolo già di suo.
Stupisce ancora di più poi quando è in scena un’opera come 4.48 Psychosis, ultima sofferta fatica della più rock fra le drammaturghe: Sarah Kane, suicidatasi a 28 anni sfuggendo perfino nella morte allo stereotipo del 27 maledetto, che aveva già prematuramente strappato alla vita un bel nutrito gruppo di artisti. Eppure di maledetto c’è sempre molto nel suo teatro, la sua prima opera si intitolava “Blasted” (Dannati) e conteneva già quel nucleo di brutalità tutta umana che avrebbe raggiunto il suo apice in “Crave”, forse la sua opera più controversa.
Psicosi delle 4.48 affronta invece un tema più profondo, anche se non meno inquieto, quello della depressione che aveva per lungo tempo attanagliato i pensieri dell’autrice britannica conducendola infine all’estremo eppure lucidissimo gesto della morte autoindotta. Eh sì perché spesso si sorvola troppo su questo punto, siamo in grado di decidere della nostra fine? Quale saccente giudice o dottore in fondo potrebbe delineare con assoluta precisione la linea che demarca la coscienza del suicidio, è davvero così malata la nostra protagonista? O è solo stanca di vivere? Il testo scardina con forza straordinaria un desiderio di morte, disperatamente aggrovigliato fra reale e onirico, di cui di rado si riesce a parlare senza cadere in banalismi intellettuali o peggio predicozzi religiosi.
La sapiente regia del giovane Simone Giustinelli conduce senza strappi o forzature la performance della bravissima Valentina Beotti, dall’ottimo piglio scenico e perfettamente in grado di catturare gli animi per un’ora e più di monologo senza un attimo di caduta, cosa rara perfino per certi grandi nomi da palcoscenico. Efficacissimo l’allestimento di Michael Durastanti e Stefano Patti, scarno come da indicazione della Kane, ma ricreato fra le pareti nivee del teatro, quasi ne fosse una naturale estensione, uno spettacolo da vedere, ma soprattutto da ascoltare e anche da leggere, con la sfida in animo di cogliere fra quelle “psicosi” qualcosa di noto anche fra noi “normali”, come quell’urlo nella foresta conradiana dove Marlowe si scopriva paurosamente simile a quegli indigeni “bestiali”. Un debutto nazionale (testo tradotto da Gianmaria Cervo) assolutamente imperdibile.