
[rating=2] Un uomo, vestito di nero e quasi magro, scende una scala a pioli fra le grida di alcuni uomini e donne che, dall’alto, impietosamente urlano il nome di “Falstaff”. Questa specie di discesa nel girone dell’inferno di Battiston apre lo spettacolo “Falstaff” al teatro Storchi di Modena: soltanto qui percepiamo l’umanità e la debolezza di un personaggio che per il resto della sua vita si nasconderà dietro l’ebbrezza dell’alcool e lo scudo della menzogna. Una volta indossata la sua pancia finta, piena di vino e corredata di un rubinetto dal quale può elargire il suo contenuto, la trasformazione è presto fatta, il gelido inferno diventa un caldo harem, con tutte le dissolutezze e i vizi umani in bella mostra.
Le belle scene e l’indiscussa bravura di Battiston sono interrotte dagli interventi a microfono aperto di cui non si comprende bene il fine ultimo: si fa la telecronaca di chi bussa alla porta e chi entra, oltre ad una serie interminabile di parole e frasi che appesantiscono pur non comunicando niente di più rispetto a quanto già intuibile sul palco: l’epicurea ricerca del mero piacere, il “corpo più importante dell’anima” sono messaggi ovvi di un gozzovigliatore come Falstaff, non c’è bisogno di ulteriori argomentazioni, ripetitive e pesanti (che tra l’altro tirano in ballo Nietzsche e Kafka…). Gli effetti speciali per introdurre i personaggi e per i cambi scena sono pregevoli, ma pare che abbiano il solo scopo di stupirci, di farci fare “ooohhh”: fuochi d’artificio, belli ma brevissimi. L’impressione è di avere una serie di eccellenti ingredienti ma parzialmente tagliuzzati e non ben amalgamati, cucinati senza amore che cadono indistinti nel calderone globale.
La storia di Falstaff, che si trova ne “Le allegre comari di Windsor” e nell’”Enrico IV” di Shakespeare, viene reinterpretata: mentre nella prima commedia l’autore si beffa del simpatico ciccione bugiardo, nello spettacolo questo finale viene cassato, si prendono a prestito solo i personaggi e ci si concentra sulla perdizione umana, si sottolinea il senso di impotenza dell’uomo di migliorarsi, “non c’è coraggio senza vino”, l’uomo può solo “schifare le bibite leggere e darci giù col vino forte”, d’altra parte l’onore è solo una roba da morti, è più semplice restare dei reietti senza coraggio: “Tu cambia faccia e io cambio vita!”. Non si ha, nel finale, la rivendicazione del bene sul male che si aveva in Shakespeare, con l’ubriacone preso in giro da tutti gli altri personaggi. Non si fa riferimento nemmeno alla travagliata morte del vecchio e solo Falstaff citata da Shakespeare nell’”Enrico IV”, abbandonato anche dal suo compagno di bagordi Enrico del Galles, divenuto Enrico V. Anzi lo spettacolo si chiude con la morte trionfale di Falstaff, con una stele “marmorea” con l’effige della sua faccia che sovrasta tutti i personaggi, un inno alla disgregazione della morale.
Lo spettacolo approfondisce dall’”Enrico IV” la tematica del salto generazionale fra il re e il suo erede al trono, un padre “indebolito dal figlio” che in compagnia di Falstaff non può ch diventare un ubriacone e un poco di buono, “il nemico a me più caro”. Bella la scena del re oramai morente legato per un piede ad una catena, come bella è la scena in cui i peccaminosi divani e teli dell’harem rimangono sospesi a mezz’aria, come se i mali dell’uomo fossero soltanto trattenuti e non eliminabili, una spada di Damocle in attesa della successiva ricaduta.
Battiston è molto bravo a passare dalla parte dell’algido re a quella del dissoluto Falstaff, il resto del cast risulta all’altezza della prova, anche se talvolta urlano un po’ troppo. Uno spettacolo frammentato, ben recitato e con bellissime scenografie e luci, ma che non decolla mai, troppe parole e contorsioni filosofeggianti, per spiegare la storia di un inguaribile godurioso.