Il lavoro “paga” per quanto toglie?

[rating=3] Un telo bianco è teso dal soffitto fino in terra dietro quattro sedie schierate davanti ad un telefono nero. La luce delimita un riquadro sul palco, quasi come fosse un ring. Un uomo in piedi si osserva attorno nervoso, non è a suo agio, aspetta. Il colloquio di lavoro, oggetto dello spettacolo “Il metodo” al Duse di Bologna, gli mette pressione e per rilassarsi chiama un suo amico. “Se mi va bene qui faccio il botto, se mi va male mi suicido”, la posta in gioco è alta. Arriva un uomo, anch’esso abbastanza nervoso, che fa sempre le stesse domande come se fosse un rituale, e ancora una donna e un altro uomo che chiudono la rosa dei candidati per il posto di direttore marketing ricercato.

I quattro aspettano che arrivi qualcuno dell’azienda per iniziare il colloquio vero e proprio ma il telefono suona e una voce comunica che fra di loro c’è già una persona dell’ufficio personale, sotto mentite spoglie. I quattro iniziano così a dubitare l’uno dell’altro, a chiedere, ad indagare nella vita degli altri per scoprire chi fra di loro è la talpa. Come in una sorta di grande fratello, si sentono osservati, studiati.

Oltre alla competizione per il posto di lavoro, si osservano molti altri “scontri”: la dedizione al lavoro cozza con gli amori e le relazioni della vita privata, “se li mescoli fai solo casino”; la lealtà delle scelte collide con il calcolo di convenienza, come nella vicenda di una persona caduta in depressione, il cui licenziamento avrebbe prodotto una pessima immagine ma “ovviamente” non un problema etico. Persino le proprie preferenze sessuali possono andar contro all’immagine patinata che ognuno ha di un professionista “dei piani alti”, dato che non potevano scrivere nell’annuncio: “Cercasi direttore marketing astenersi travestiti”… Il lavoro è spietato, è uno status, da molte soddisfazioni ma succhia l’intera esistenza delle persone, dettando precise regole di  comportamento che l’azienda e la società si aspettano da loro, anche nella vita privata. In quest’ottica, quando telefonano alla donna per avvertirla che è morta sua madre, lei non può correre da lei perché altrimenti perderebbe il posto: gli affetti personali vengono dopo, “mia madre è morta mezzora fa, ormai non cambia niente”. Questo comportamento, oltre a generare le facili ironie degli altri pretendenti (“Tranquilla, ormai è questione delle pompe funebri”, e ancora “tua madre sarebbe orgogliosa di te!”) viene fatto passare come la cosa più normale di questo mondo.

I candidati cercano di mettersi in difficoltà, di manipolarsi, di pugnalarsi alle spalle con autentica spietatezza utilizzando l’uno i punti deboli dell’altro: al razionale e cinico si chiede se ha mai amato qualcuno nella sua vita, all’emotivo si sbatte in faccia che “nessuno assumerebbe mai uno come te”, alla persona sensibile si inventa una storia strappalacrime per farla capitolare, sempre ricordando la regola aurea per cui “o accetti o te ne vai”, vincere o morire. Nessuna riservatezza, nessun pudore può creare barriere al successo, si è obbligati a mettersi a nudo, anche davanti a perfetti estranei. I personaggi si scoprono e sospettano, creano ipotesi e le smentiscono, si uniscono e si dividono, collaborano e si ostacolano, e tutto ciò genera anche nello spettatore la ricerca della verità: il continuo spostamento dell’attenzione da un candidato all’altro e l’escalation di colpi di scena per niente prevedibili sorreggono bene la tensione di questo thriller fino al finale, non scontato.

In certi punti purtroppo il ritmo delle battute è francamente troppo serrato, il pubblico è quasi tramortito da una mitragliata di parole che lo lasciano frastornato, e questo è forse il difetto maggiore dello spettacolo, il resto fila bene e tiene incollati alla visione.

Molto carino il finale che riprende la scena iniziale, come a far vedere che quello che abbiamo visto succede continuamente, tutti i giorni. La morale è che l’aggressività, il cinismo e l’ipocrisia non pagano, dato che l’azienda ha “bisogno di un figlio di puttana che faccia il brav’uomo e non di un brav’uomo che faccia il figlio di puttana”…

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