
Ci sono molte, strane e divertenti congiunzioni che mi legano a Fabiana Iacozzilli. In primis il nome che condividiamo, un tempo e forse anche adesso non proprio comunissimo, in secondo luogo il fatto di aver avuto a che fare con delle suore, una almeno responsabile del futuro professionale. Con esiti diversi. Ma questa è un’altra storia. Negli anni poi si sono intrecciati percorsi e comuni conoscenze. La recensii (un po’ acerbamente) per la prima volta nel lontano 2014 per la Trilogia dell’attesa. Uno spettacolo che mi aveva colpito nel profondo, per questo tornando a scoprirla in teatro per La classe, non avevo mancato l’appuntamento di una nuova recensione. Anche quello spettacolo mi parlava e parlava “di me”.
Di recente poi le sue ultime indagini sulla gravidanza e la memoria, ancora una volta apparivano in qualche modo “richiami” alla mia personale esperienza. Il grande vuoto, fra l’altro candidato ai premi Ubu 2024 come miglior spettacolo, miglior regia e miglior attrice Giusi Merli, è stato un ulteriore “aggancio”.
Chi ha avuto in famiglia qualcuno affetto da Alzheimer, la malattia appunto del vuoto che mangia il cervello, mai pronunciata nello spettacolo di cui sopra, sa bene cosa accade dentro il nucleo umano della casa. Di quali gesti inutili, ridicoli, scomposti, ma talvolta di graffiante tenerezza siano capaci persone care per cui si diventa sconosciuti e che per certi versi diventano lo stesso anche per noi. È questa l’anima centrale del racconto della Iacozzilli, che prende le mosse dal lessico umanissimo e nient’affatto consolante di Annie Ernaux (nobel per la letteratura nel 2022) nel romanzo Una donna e da Fratelli di Carmelo Samonà, dove si indaga tanto il concetto di cura che la relazione di sangue.
Ma i crossover non sono finiti. La madre affetta dal disturbo neurodegenerativo è interpretata da una magnifica Giusi Merli, già realmente protagonista di un Re Lear al femminile di cui si fa menzione nello spettacolo. Andato in scena anni orsono con la regia di Gianfranco Pedullà. La storia si è inoltre alimentata dalle ricerche nelle RSA della dramaturg Linda Dalisi, già collaboratrice di Iacozzilli anche per la Trilogia dell’attesa. Qui di trilogia ne abbiamo un’altra, quella del vento, che ingloba La Classe, dedicato all’infanzia e al percorso identitario, Una cosa enorme, che gravita attorno al concetto di maternità e appunto Il grande vuoto, che invece ci racconta la lenta decadenza dei ricordi.
La scena si apre col dolce siparietto di un’anziana coppia (Giusi Merli in stato di grazia ed Ermanno De Biagi). L’organizzazione di una piccola trasferta, le arance cadute da una busta, la borsa dimenticata sul tettuccio, le scaramucce, una sigaretta rubata. Sullo sfondo il frusciare appena percettibile di una tendina dorata da compleanno. Simulacro di un vero sipario, quello abbandonato ormai da molto tempo dalla donna, un tempo attrice di teatro.
Sono i primi “indizi” della piccola e universale parabola che di lì a poco si aprirà allo sguardo dello spettatore, dove su un lungo tavolo da pranzo si consumeranno le istanze di due figli-fratelli e appunto di una madre, Giusi, che ha perso completamente la registrazione della memoria a breve termine. E allora tanto gli attori che il pubblico sono costretti ad ascoltarla per diverse volte ripetere il medesimo racconto di quel Re Lear messo in scena in Russia, di cui oggi rimane solo una vecchia matrioska.

È una prova che ci butta subito tutti in medias res, gettandoci addosso la rassegnazione di Piero (Piero Lanzellotti) e la rabbia di Francesca (Francesca Farcomeni) che mi ha ricordato quella di Jean-Lous Trintignant nei panni di George, nella splendida pellicola Amour, Oscar come miglior film straniero e palma d’oro a Cannes nel 2013. Protagonista ancora l’alzheimer, con la progressiva sgretolazione relazionale fra due coniugi anziani che dividono la grande casa di un passato felice insieme. Ora sbiadito, quasi del tutto scomparso. Rabbia e rassegnazione dunque, un’altalena su cui la Iacozzilli ci spinge a salire e forse anche a cadere.
Siamo dentro quella casa, ad assistere Giusi replicare i gesti, le parole, la seguiamo lungo uno schermo che riproduce la videocamera installata in casa per controllarne anche a distanza i movimenti. Tutto si mischia, dentro e fuori, fra scena e astanti in sala, mentre il vuoto avanza, come il Nulla che invade il regno di Fantàsia ne La storia infinita di Ende e la madre-matrioska si scompone nei suoi stessi multipli. Sempre più piccoli. Non c’è più niente, eppure c’è tutto.
Il grande vuoto è una finestra. Ci fa guardare Giusi svuotare sul grande tavolo i suoi vecchi vestiti di scena, le fotografie, le cravatte di Ermanno, i giocattoli dei sui figli ormai adulti. Un passaggio iper-dolente, toccante, soprattutto perchè spesso proprio i giocattoli, le bambole, diventano interlocutori privilegiati, depositari di frammenti di vita sfuggiti o fagocitati dal delirio. Giusi si “svuota” su quel tavolo come un’innocua Norma Desmond sul suo Viale del Tramonto, nella volontà di riacciuffarsi, cogliere qualche barlume del passato ancora non del tutto svanito e noi con lei. Spinti in ogni istante a guardarla, a guardarci come figli che diventano genitori.
Meravigliosa e indimenticabile in tal senso l’interpretazione della Farcomeni che ibrida furia e dolcezza, nel tentativo di riportare sua madre nel presente. Perfettamente bilanciata dall’immaturità arrendevole di Piero, che pure segue infine il folle progetto di una mistica rievocaizone di quel Re Lear vestito di tovaglia e munito di spada laser. Nientemeno che nei panni di un improbabile Ciro Immobile, che da calciatore della Lazio si trasforma nel Fool del sovrano. Una figura shakespeariana ricorrente e che in Re Lear è ben più di un giullare, altro che “fool”. Qua i parallelismi e le chiavi di lettura si sprecano.
Lanzellotti offre così in divisa biancazzurra quella punta di amara ironia che forse, dico forse, ci fa ingoiare un paio di lacrime. Che dire poi del bravissimo Ermanno De Biagi? Seppur per poche battute, nella scena iniziale mostra tutta la sua incredibile resa scenica. La sua è una faccia che non si dimentica, mai. Breve ma convincente anche l’apparizione di Mona Abokhatwa, che debutta a teatro nei panni della badante. Menzione specialissima poi per le scene di Paola Villani, che si aprono e chiudono nella casa come un’enorme matrioska, dipinta splendidamente dalle luci di Raffaele Vitiello e dalle musiche di Tommy Grieco.
Eccola che ritorna questa metafora della bambolina lignea solo in apparenza vuota, ma in realtà piena di microversioni di se stessa. Figlia e madre insieme. Last but non least il parallelismo proprio con la tragedia per eccellenza del passaggio-conflitto generazionale. Quel Re Lear che ingaggia una “gara” per spartire ormai vecchio il suo regno, proporzionando terre in base all’amore dimostrato dalle tre figlie. Un amore puro quello di Cordelia, l’unica figlia sinceramente affezionata al padre, che però viene frainteso e allontanto, per poi ricongiungersi con esso solo nella morte.
Questo spettacolo spacca cervello e cuore. Li riempie entrambi di così tante suggestioni che è perfino difficile scriverne, senza rimanere incastrati nel vortice delle emozioni. Fabiana Iacozzilli firma un capolavoro, non riesco a concludere diversamente.