
[rating=5] Vietato tenere le distanze, con Brutto, intelligente spettacolo firmato Bruno Fornasari che traduce per la scena la brillante drammaturgia di Marius von Mayenburg. A luci accese in sala, prima che il pubblico abbia il tempo di accorgersene e iniziare a fare silenzio, gli attori si aggirano fra il pubblico, gigioneggiano un po’; tra un escamotage e un altro, ecco che tutti e quattro salgono, non prima di aver “promulgato” un inizio più che certo alla pièce, dal sapore ironico, nei confronti delle formalità del teatro. E così, dopo essersi presi e averci dato questo tempo, l’inizio in medias res della vicenda, con battute a velocità supersonica e un’impostazione piuttosto teatrale, fanno quasi mancare la terra sotto i piedi.. ma anche se il testo scorre veloce, si comprende ben presto il senso della scelta.
Senza redini, si è trasportati nell’universo un po’ cinico e un po’ distratto del protagonista Lette (Tommaso Amadio) e dei personaggi che gli ruotano attorno, in ambito lavorativo così come nella vita privata. Il capo Scheffler (Michele Radice), cinico imprenditore dotato di uno straordinario egoismo e senso del reale nel mondo degli affari, e il collega Karlmann (Mirko Ciotta), invidioso esemplare di “ultima ruota del carro” all’interno dell’azienda, sono coloro che sferrano un attacco inaspettato al protagonista; a Lette viene detto in faccia che è Brutto, «Troppo Brutto per vendere qualunque cosa», e che per questa ragione sarà l’assistente Karlmann a sostituirlo al convegno di presentazione di una sua invenzione. Un tale editto genera una scoperta del tutto inedita, subito riversata dall’incredulo Lette sulla mogliettina, Fanny (Cinzia Spanò), che con irriverente humor gli assicura che oramai lei non ci fa proprio più caso al fatto che.. ehssì, caro, sei brutto. Altolà, non c’è tempo per empatizzare; il ritmo continua ad accellerare e ben presto anche i più sensibili tra noi, pubblico, parte integrante di questa situazione grottesca, si ritrovano a partecipare divertiti alle battute più o meno pesanti dei personaggi, che non mancano un’occasione per fare pesare al protagonista la sua sgradevolezza esteriore. Voilà, ci si ritrova dal chirurgo plastico, personaggio persino più cinico del capo, interpretato sempre dal divertentissimo Michele Radice; Lette si fa impiantare letteralmente una “nuova faccia” su oscuro disegno di un veridicissimo chirurgo con spasmi alla mano, privo di empatia e incapace di un qualunque tipo di assunzione di responsabilità, che però esige dal povero Lette totale fiducia.
La fabula procede a colpi di scena; non ci si perde niente, e si scopre che sono tagliate via tutte quelle parti in cui, nella vita vera, si perde tempo, ponderando, consigliandosi, esprimendo dubbi. La triste ballata di Lette è invece una partita solitaria ad un videogioco ultima generazione; azione-reazione-azione-reazione; non c’è tempo per capire e capirsi, per cercare conforto. E infatti Lette, che ovviamente nel frattempo diventa il più bel “portatore di faccia” vivente, vince tutto quello che prima gli era precluso: complimenti, ammirazione, sesso vero, quello dato dal desiderio, adulazione estetica, successo aziendale, in un crescendo che si spazza via tutto il suo vecchio sé; incluso nel pacchetto, però, c’è anche il ruolo di cattivo. Ora che i giochi di forza e potere, in campo lavorativo quanto nel matrimonio, sono cambiati, Lette reagisce ai nuovi impulsi con sempre crescente egoismo, spietatezza, narcisismo; come nel più classico dei classici. Il punto è, che non siamo nell’universo della Walt Disney, per cui non c’è nessuna forza del bene che possa riportare l’ordine delle cose e punire il “colpevole” che ha iniziato a sovvertire le regole di natura; qui non c’è più vittima né carnefice, tanto è vero che il processo di perdita di controllo della propria identità, a livello psico-somatico, si fa sempre più soffocante e dilagante, per tutto, per tutti.
Pochi esemplari sopravvivono senza un minimo di sofferenza, almeno fino a dove arriva la pièce; giusto uno come il dottore, oppure una vecchia riccona ninfomane di 72 anni, prima amante di Lette (l’altro personaggio interpretato da Cinzia Spanò). Per gli altri, questa catastrofe collettiva, innescatasi con la semplice perdita dei confini tra il giudizio altrui e il giudizio del sé, si dipana in una serie di vicissitudini che diventano sempre più dure da mandar giù con una risata o da dimenticare. E dunque nella velocità dell’azione ci sono meno battute sarcastiche e più scoppi di rabbia, atti sessuali frustranti e castranti, il ritmo si trasforma da brillante ad ansiogeno e anche la sola traccia musicale presente in scena, direttamente “lanciata” di volta in volta da uno degli attori, sul palco, sembra trasformarsi; diremmo quasi che è cambiata musica, ma così non è. Il meccanismo del “non c’è tempo” si rivela infame per i protagonisti stessi, che sembrano subire prima qualcosa e non avere il tempo per assimilarlo o farci i conti. Così le scene si susseguono, con cambi del “doppio” interpretato da ogni attore, sempre più rapidi; il codice è quello del montaggio cinematografico degli anni 2000 e oltre; l’essenzialità della scena ci riporta in un luogo-ovunque nello spazio e che è presente, ma soprattutto futuribile; e non si può fare a meno di vederla materializzarsi, la voragine che ci prenderà, se continuiamo a basare la nostra identità sui canoni collettivi.
Regia asciutta con soluzioni geniali, aiutata da una scenografia basilare (4 luci che sanno creare spazi vastissimi come un grattacielo o una sala conferenze); tutto lo spettacolo si fonda sulla bravura attorale e la capacità di creare codici chiari nonostante l’assenza di cambi scena o “effetti speciali” (al contrario di quello che si fa nella storia!). Noi pubblico crediamo perché il patto attore-spettatore si crea da subito, complice le risate, e permane, perno saldo su cui costruire i piani sempre più complessi degli accadimenti.
Brutto parla della confusione sempre più dilagante tra personalità e società, tra decisioni personali e decisioni obbligate, tra sogni/desideri e sogni/status symbol. Alla fine, o forse meglio dire all’inizio, in questo caso, sopravvive solo l’amore, l’avversario che cede però subito ai colpi dei cattivi di questa fiaba all’incontrario: il denaro e il potere. E se nel monologo quasi finale di Lette (pezzo di straordinaria bravura) troviamo un briciolo di umanità ancora presente e ritroviamo quell’empatia che, con maestria, gli attori e la regia ci avevano fatto perdere, bum!, di nuovo non ci viene dato il tempo per soffrire; il finale arriva come inaspettato da un lato, o l’unico epilogo possibile dall’altro. Agghiacciante eppur verosimile, viste le premesse.
Così il mito di Dorian Gray, cui la vicenda sembra fare post-modernamente eco, si trasforma in una specie di parabola della nuova società, che visualizzo come il bugiardino di un medicinale. Scritta in piccolo e ripiegata su sé stessa, piena di parole difficili e dati incontrovertibili, ma tutto sommato, oscura ai più. E per questo, fonte di assoluta verità.
*Avvertenze: Brutto è fastidiosamente cinico e va fatto decantare qualche ora. La sua sintesi, rapidità e spietata analisi del reale richiede un tempo di assimilazione molto maggiore a quello di esposizione alla scena. Da consumarsi il prima possibile.