
[rating=3] Suria è la scrittura fonetica di Siria, così come si pronuncia in arabo. Un suono dolce, come le voci che accompagnano Ma’a al Fidda/ Silvered Water, Syria a Self-portrait di Ossama Mohammed e Wiam Simav Bedirxan al Cinema Odeon di Firenze.
La voce di Ossama, rifugiato siriano a Parigi è calda e avvolgente e commenta immagini, sì, cruente ma, purtroppo e per fortuna, più digeribili di quanto non avessimo creduto. Purtroppo perché non essere rimasti scossi dalla loro visione ci interroga sul grado di cinismo che abbiamo raggiunto, assuefatti alla violenza dai continui bombardamenti mediatici e non (web); per fortuna perché vi è stato modo di arrivare in fondo alla proiezione senza sentire l’esigenza di scappare.
La voce di Simav (acqua d’argento) è più dolce e commenta la seconda parte, quella che il Presidente del Festival dei Popoli, Marco Pratellesi, a nostro avviso correttamente, dichiara essere più poetica e, potremmo aggiungere, incisiva. Sì perché, mentre all’inizio ci vengono mostrate immagini di morti e torture, sfuocate e spesso difficili da decifrare, che restano perciò immagini, distanti dalla nostra intimità, in seguito, oltre al rapporto epistolare (mediante chat) tra i due registi, che già ci restituisce una dimensione più umana (grazie alla quale condividiamo paure e fragilità di entrambi), è quando ci fa conoscere il piccolo Omar che il nostro cuore si apre e cominciamo a intendere l’orrore di quella guerra.
“Mangi pomodori?” chiede il piccolo Omar al padre defunto, quindi, per lui, in paradiso. Vuole sapere com’è quel paradiso e porta le rose più belle, pregando insieme a Simav. Osserva, con intelligenza e razionalità. Non è ingenuo come si potrebbe pensare, ma libero e forte come un bambino. Sicuramente più di un adulto.
È la sua freschezza che ci commuove. Perché contrasta con l’orrore privo di senso che la guerra ha portato con sé. E perché è ancora capace di scovare la bellezza in mezzo alle macerie. Così, trova un papavero, rosso, in mezzo al grigiore della morte, ed entusiasta si precipita a raccoglierlo. Vitalità inconcepibile, per un adulto, in quelle circostanze.
Omar vede oltre. Nonostante l’orrore. Ed il suo comportamento è un pesante monito per tutti: ci indica il giusto atteggiamento nei confronti della vita e il contrasto con la sua vivacità rende ancor più inaccettabile l’assurdità della guerra. Qui, entrando in contatto con lui, che non è più solo un’immagine, ma una persona, la rabbia diventa insostenibile e la commozione inevitabile: il rapporto che instauriamo con il bambino, tramite le riprese di Simav, ci fa sentire come insopportabile la sua morte, più di quella di ogni altro. Venendo a mancare il piccolo Omar siamo orfani di figlio… di padre e di madre… della nostra guida.
Con la sua morte verrà a mancare per sempre uno nuovo sguardo sul mondo che dovrebbe contagiarci, che rimetterebbe le cose al loro posto ma che non siamo più in grado di sostenere.
Così chi lo ha ucciso non ha compiuto solo un crimine contro la sua persona, ma contro l’Umanità, che di quel bambino aveva bisogno, per ritrovare un senso, uno sguardo… la propria anima. Quel giorno la vita si è fatta più cupa, una luce si è spenta sul nostro avvenire e chissà se saremo mai capaci di riaccenderla.
Non si può non pensare però a quanto questa storia sia comune, a quanti bambini devono vivere e sopravvivere da sempre in zone di guerra. Tutti quei bambini a cui viene strappata prima l’infanzia, poi la vita e che lottano prima di tutto per rimanere se stessi: bambini, appunto. Come ci ha mostrato agli inizi del 2000 Roberto Benigni con La vita è bella, è quello il compito più difficile: proteggere i bambini non solo dalla morte, ma dall’orrore più grande, la perdita dell’infanzia. La perdita di quello stato di grazia che dura solo un baleno nella vita di un essere umano e che per questo va tutelata. La gioia più grande sono loro, i bambini, che ci riportano alla vita. Ucciderli, o lasciarli morire, che è la stessa cosa, significa uccidere la parte migliore di noi. Per cosa? … Perché?
I cecchini appostati che sparano a chi tenta di recuperare i corpi, ahimè, li abbiamo già visti: succede altrettanto a Gaza, tutti i giorni, da decenni. Li ha ben documentati Alberto Arce nel suo To shoot an elephant (2009, il film è copyleft sul sito omonimo), ospite insieme al compianto Vittorio Arrigoni, proprio al Festival dei Popoli per la 50esima edizione, nel 2009. Laggiù, neppure chi opera sulle ambulanze è al sicuro. Quell’orrore quindi lo conosciamo, eppure rimaniamo lontani dal pericolo. Condividiamo il senso di impotenza e di vergogna del regista: loro lì a morire, noi qui in salvo. Sarebbe a volte utile un cambio di ruoli?
Non siamo pronti per questo: la scelta di andare consapevolmente incontro alla morte non è facile da assumere. Perciò è necessario assicurare indulgenza al “codardo” (è lui a dirlo) regista: non possiamo pretendere dall’altrui condotta una levatura morale che non possediamo. Digressioni a parte, possiamo assolutamente concludere manifestando la nostra preferenza per la seconda parte, più spontanea e vera rispetto all’intimismo celebrale del lavoro di Ossama.
È quando smette di chiedergli che cosa filmerebbe e inizia a filmare in autonomia che Simav ci cattura e trasmette il suo messaggio. Grazie Acqua d’Argento per averci permesso un tuffo nelle tue acque! È stato un bagno salutare!
E una conferma: come dichiarato da Eytan Fox nel corso della retrospettiva a lui dedicata dal Queer Festival, nella vita di una persona ci sono momenti tragici e momenti di maggior leggerezza. Così come la sua personalità contempla entrambi gli aspetti. Ebbene, anche il Festival dei Popoli, come organismo vivo e vitale, riporta questa complessità. Così se Dior and I ci ha regalato un aspetto più piacevole e leggero della vita e Smoking non ci ha convinti a sufficienza, Ma’a al Fidda ci ha aperto gli occhi sulla miseria. La smentita che attendevamo è arrivata. Tre stelle!