
[rating=4] Due strade si intersecano sul palcoscenico, due percorsi che formano un’enorme “X”: in tre dei quattro angoli c’è una sedia con un vestito buttato sopra, nel quarto c’è un manichino di un bambino su un piedistallo di legno. Cesar Brie entra in sordina, con una lanterna in mano, immerso nella penombra, guardando negli occhi uno per uno le persone del pubblico che lo circondano sui quattro lati. Così si apre lo spettacolo “Ero” al Teatro delle Passioni di Modena, con Cesar Brie in veste di attore oltre che di regista.
“Ero un bambino e ora sono un vecchio”. I ricordi, i rancori, i traumi, le ansie e gli aneddoti vengono estrapolati dal consueto oblio del tempo e ridati alla memoria, restituiti alla vita. La narrazione procede senza una linea definita, per immagini e con un ampio utilizzo di oggetti, ripercorrendo le vite dei protagonisti dei suoi ricordi: si parte dal padre libraio “con la passione per i libri e la repulsione per i soldi” che regala volumi a tutti, Brie gli si avvicina camminando sui libri, la cultura segna il giusto percorso da tenere e sorregge i nostri passi. Toccante il racconto della rapina, durante la quale il padre ammette per la prima volta la sua malattia che dopo due mesi lo ucciderà, facendo sentire i rapinatori in colpa e informando i suoi familiari della sua silente sofferenza. La scena si conclude con il vestito del padre che penzola su di un filo in mezzo al palcoscenico e il figlio che lo muove come se fosse ancora vivo, ne prende l’essenza, lo materializza: la memoria è l’unico modo per tenere vive le persone, in questa esistenza spesso appesa ad un filo. Sulla sedia del padre Brie fa sedere una persona del pubblico, come a sottolineare un nuovo inizio, ognuno può diventare padre e restare nella memoria dei suoi figli. Si crea una specie di teatro di manichini, la mamma e il padre ballano appesi al medesimo filo nel centro del palcoscenico, una ricostruzione onirica che può avvenire solo nella mente di un bimbo: “Padre mio sei sempre presente”, “mia figlia ha i tuoi occhi”.
In questo turbinio di ricordi nessuno muore del tutto, nessuno sparisce. L’attenzione passa al bimbo finora rimasto in sordina, “perché hai paura del buio? Perché così si muore”, le domande puerili si susseguono martellanti, “volevi scappare di casa e non avevi il coraggio?”. Quel bimbo di 8 anni, che sognava di salvare Merylin Monroe dal suicidio e prendersi tutti i baci, che a differenza degli altri non ha vestiti ma ha fisicità, non esiste più, al suo posto c’è ormai un vecchio attore che si scaglia contro i critici, “come fate ad andare a teatro con la puzza sotto il naso?”, li odia ma non ne può fare a meno, le pagine dei loro giornali se le infila sotto la maglia, iniziano a far parte di lui. Il teatro promuove solo i grandi nomi e non accoglie gli emergenti, i talentuosi senza mezzi. Un teatro che cerca il profitto e che non ascolta chi ha davvero qualcosa da dire. Si affoga da solo in un catino d’acqua mentre lo urla al pubblico.
Il finale è un ulteriore connessione mnemonica verso il bambino che è stato inchiodato nella sua cassa da morto per poter diventare adulto: nel disseppellirlo si diventa nuovamente come lui, si ritorna lui, il cerchio si chiude. In realtà il bimbo non è un ricordo come il vestito del padre e della madre, è qualcosa di più, un manichino, non una personificazione esteriore ed esterna ma bensì uno stato interiore, abbandonato tanti anni prima. Il contrasto fra la spensieratezza sognante del giovane e l’amarezza e frustrazione dell’adulto è solo accennata ma persiste fino nel finale, quando il manichino viene posto in braccio ad una persona della platea per un’ultima istantanea, un’ultima fotografia della memoria, di cui noi del pubblico facciamo da sfondo.
“Voi sarete il corpo degli assenti”
Brie procede per immagini ed aneddoti, come solo la memoria sa fare: il suo racconto, che a differenza di quello che si potrebbe pensare non è autobiografico, parla di un uomo che ormai non è più tante cose, bambino, nipote, figlio, forse non è neanche più in vita. Il suo lavoro è frammentato eppure mantiene una circolarità di fondo, che stride con la “X” del primo impatto visivo. I moltissimi oggetti scenici talvolta non sono così significativi e tendono ad appesantire. Comunque Cesar è bravo a cercarci con lo sguardo, i suoi movimenti sono naturali e ammalianti, anche se forse tocca il suo apice di bravura quando è seduto in cabina di regia.