
[rating=4] Proiettata sul sipario ancora chiuso del Dehon di Bologna si legge la scritta “Prologo”. Come prologo?! Beckett non ne faceva mai e di sicuro non li amava, a lui piaceva entrare nel vivo delle sue creazioni senza preamboli. Si intuisce subito un riadattamento, un inizio “non convenzionale”, ma d’altra parte nel Teatro dell’Assurdo c’è davvero poco di convenzionale. Questa forma di teatro, che prese piede negli anni ’50-’60, abbandona il nesso causale degli avvenimenti per dedicarsi a situazioni illogiche e paradossali, all’assurdo appunto, dapprima come forma di semplice comicità, poi sempre più sostituendo l’ilarità con un riso amaro, che deride ma sottolinea la condizione umana, ne analizza l’essenza più profonda, facendo l’occhiolino all’esistenzialismo. L’assurdo diventa normale, e in questo capovolgimento dei valori universalmente riconosciuti, si percepisce l’uomo per quello che è davvero, senza interferenze di pregiudizi e logica.
Beckett rappresenta la massima espressione di questo pessimismo esistenziale, l’uomo risulta inadatto, incapace di comunicare, svuotato della parola e dei suoi significati, esiste e non può farci niente, può solo continuare a vivere. La cosa che più impressiona e affascina nella sua drammaturgia è come riesca a farci percepire la sua visione così negativa della vita in modo giocoso, apparentemente leggero, strappando in più occasioni sonore risate. “Niente è più buffo dell’infelicità” è la frase celebre di uno dei suoi capolavori, “Finale di partita”.
Sulla scena due enormi bidoni da cui escono due buffi personaggi: i dialoghi sono presi in prestito da altre opere di Beckett, “Aspettando Godot”, ed il già citato “Finale di partita”, da cui si è preso spunto anche per i bidoni. Roberto Sturno e Glauco Mauri costruiscono un quadro iniziale ben ritmato, anche se il dualismo che si presenta, il susseguirsi rapido di battute scollegate tra loro, il non ascoltarsi e non rispondersi dei personaggi, immobili ed immutabili sulla scena sono tutte caratteristiche salienti dei capolavori di Beckett, ma che poco avrà a che fare con il resto dello spettacolo. L’obiettivo è chiaramente quello di facilitare lo spettatore, oltre a fargli fare personalmente la conoscenza del terzo personaggio dello spettacolo, lo stesso Beckett, che si materializza in una foto alle spalle dei due, e che farà continuamente capolino, con estratti delle sue interviste più famose, fra un atto unico e l’altro.
Si inizia con “respiro”, che detiene il record per la partitura teatrale più breve in assoluto, consumandosi in appena 35 secondi, il tempo di un respiro appunto. Questo è una piéce vista pochissime volte a teatro, anche perché Beckett, invitato alla prima rappresentazione, rimase deluso dalla rivisitazione fatta dal regista e vietò ulteriori repliche.
Si passa ad “improvviso in Ohio”, che a dispetto del nome impegnò l’autore per nove mesi prima della messinscena. Due uomini anziani sulla scena, seduti ad un tavolo. Uno di loro, con davanti un libro, legge. L’altro ascolta e, battendo la mano sul tavolo, definisce il tempo della lettura, la rende più veloce o più lenta, fa ripercorrere una frase, etc. L’argomento della lettura è la storia di un uomo che viveva con una donna sulla riva di un fiume, ma poi si trasferisce sulla riva opposta. Un messaggero proveniente dalla prima riva racconta all’uomo per tutta la notte una storia, per poi attraversare di nuovo il fiume per tornare l’indomani, fino ad un’ultima volta. Nell’intervista che precede il brano, Beckett dirà che quella donna è la sua amata Suzanne, e che lui la ricorda “morta mille volte”. Si può quindi interpretare il fiume come la morte, che impedisce all’uomo di andare dalla donna ma non di ricordarla, per mezzo del messaggero? Il quadro, come molti altri di Beckett, si presta a molte interpretazioni possibili. Il lettore e l’ascoltatore si alzano e la luce che li colpisce li mostra per la prima volta per come sono, identici, quasi gemelli, sono la stessa persona, lo stesso uomo, che non sa come affrontare il lutto per la perdita dell’amore, non reagisce, lo rivive, lo rilegge, lo ricorda.
E’ il momento dell’”atto senza parole”, dove la visione è completamente diversa: un sole accecante colpisce un uomo che non vuole restare in scena, ma appena prova ad uscirne vi è di nuovo scaraventato dentro. Subisce il fascino di alcuni stimoli esterni, come una caraffa d’acqua e un albero che magicamente arriva dall’alto offrendogli l’agognata ombra, ma sembra non riuscire mai a raggiungerli. E’ come in una gabbia, tenta di bere o di ripararsi dal sole, ma quando sembra aver a portata di mano il suo obiettivo, esso diventa ironicamente irraggiungibile. Tenterà anche il suicidio, ma rimarrà condannato a restare in scena, cioè in vita, suo malgrado. In questo quadro l’uomo è come un animale, viene stimolato dall’esterno a risolvere i problemi quotidiani, ma perde di vista il motivo della sua intera esistenza. Successivamente pare che gli stimoli non lo attirino più e così resta immobile su un palco vuoto, con la luce che pian piano si spenge (quale miglior immagine della morte?).
Il tema del ricordo si rivedrà distintamente anche nell’ultimo atto unico proposto: “gli ultimi nastri di Krapp”. Un vecchio ha davanti una scrivania piena di scatole e un registratore. Inserirà nel registratore una bobina, e anche qui riascolterà alcune tracce e ne censurerà altre, come l’ascoltatore di ”improvviso in Ohio”. Nel nastro è giovane, sta raccontando il suo 39mo compleanno, e rivive cose che ormai non può più provare, le ricorda con rimpianto e nostalgia. Maledice i nastri ma li riascolta. Poi registra la sua voce per poterla riascoltare in futuro, in un ciclico continuum temporale.
E’ divertente notare come in quasi tutti i brani delle interviste che separano questi atti unici, è come se l’intervistatore avesse continuamente chiesto a Beckett come fosse possibile essere tanto pessimista pur avendo avuto un’infanzia felice e una famiglia così vicina. Le parole di Beckett saranno lapidarie: “non sono nato per essere felice”.
Avendo per anni portato sulla scena capolavori del Teatro dell’Assurdo, Roberto Sturno e Glauco Mauri hanno una confidenza fuori dal normale con questo tipo di rappresentazioni e in particolar modo con Beckett, che dimostrano nella scelta di alcuni atti unici molto difficili e meno noti (“respiro” e “improvviso in Ohio”, per i quali mi sento di raccomandare un minimo di documentazione prima della visione per aumentarne la fruibilità) e dall’elaborazione del pregevole prologo che apre lo spettacolo. Sulla scena sono naturali, disinvolti, sembrano nati apposta per questi ruoli difficilissimi, si divertono e ci fanno divertire, ma soprattutto riflettere.
Caloroso riscontro del pubblico, ormai abituato a masticare un po’ di Assurdo sia dai due attori sia dal cartellone del Dehon, che ne contiene sempre qualche esempio.