Fame the Musical | Saranno famosi, ma non stavolta

[rating=2] Dopo lo strepitoso Newsies andato in scena lo scorso anno, erano in molti a sperare che il Teatro Nazionale ritornasse ai fasti di un tempo, quando aspirava a diventare niente-poco-di-meno-che la casa milanese del grande musical. Purtroppo però, l’italica versione musicarella di Fame, in scena fino al 1 maggio, ha riportato tutti coi piedi per terra: per ora il massimo che il budget può offrire allo spettatore è questa pallida versione del film cult degli anni Ottanta griffato Alan Parker.

E pensare che qualche indizio che questa nuova edizione di Fame potesse essere all’altezza della versione andata in scena  per dieci anni nel West End londinese c’era, a partire dalla presenza del pubblico sul palcoscenico; scelta però che si rivela ben presto infelice in quanto l’azione scenica avviene tutta verso la platea, con buona pace degli spettatori collocati ai lati e dietro al palco. Altra nota positiva sono le coreografie di Gail Richardson e i coloratissimi costumi vintage di Marco Biesta. Tutto il resto è noia. I motivi? Molteplici.

Sul banco degli imputati c’è sicuramente la sceneggiatura e in particolare la scrittura dei personaggi: nella foga di imbastire un’operazione nostalgia per lo spettatore over 40, va in scena un plot frammentato, in cui le storie dei vari personaggi non solo non riescono ad amalgamarsi tra loro, ma non scaldano neppure il cuore tanto i vari Doris, Leroy, Coco, Montgomery e compagnia cantante sono ridotti a mere figurine, prive di quello spessore che avevano dimostrato di avere nel film prima e nella serie televisiva poi.

Poco convincente anche il fronte musicale: avrei gioco facile a scrivere che è tutta colpa della decisione di tradurre le canzoni in italiano, ma Newsies è la prova che anche la lingua di Dante può regalare pezzi orecchiabili e canticchiabili a fine spettacolo. Purtroppo per Fame questa magia non si ripete, ad eccezione per l’unica canzone non tradotta ossia quella eponima che, non a caso, viene ricantanta in chiusura di spettacolo, portando sul palco, in maniera totalmente estemporanea rispetto al film, il celebre taxi giallo. Depotenziando così dalla sua carica “sovversiva” la scena cinematografica che lo vedeva protagonista.

Ovviamente simili problemi “strutturali” non aiutano il giovane cast che, al netto di qualche eccezione (in primis il Jose Vegas di Renato Tognocchi), raramente riesce ad entrare in sintonia con il pubblico in sala e a trasmettere quell’energia che, quasi quarant’anni fa, trasudava il film di Alan Parker.

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