
Torna al Teatro alla Scala dopo mezzo secolo “The turn of the screw”, il giro di vite, di Benjamin Britten, questa volta in lingua originale.
Nata in occasione della Biennale di Venezia del 1950 e tra i capolavori indiscussi nella produzione musicale del ‘900, quest’opera non ha tuttavia mai avuto significativo successo tra il pubblico italiano, tuttora ancora molto affezionato al proprio repertorio tradizionale. La ripresa di quest’anno al Piermarini segna un ulteriore passo avanti nella diffusione della produzione operistica novecentesca nelle sale del Bel Paese, di giorno in giorno sempre più avvezzo a sperimentare l’introduzione di nuovi titoli nei cartelloni fino a pochi anni fa appannaggio quasi esclusivamente dell’opera romantica.
Lo spettacolo a dire il vero non è esaltante: se da un lato la prestazione di voci e orchestra è di primissimo ordine, la regia ci lascia qualche pesante dubbio. Il libretto di Myfanwy Piper si rifà al racconto omonimo in stile gotico di Henri James del 1898, in cui gusto per il sovrannaturale e interesse per la psicologia si fondono e confondono con esito alienante ed inquietante.
Nella villa di Bly, custodita dalla governante Mrs Grose, è giunta una nuova istitutrice, il cui nome resta ignoto per tutta l’opera, ingaggiata dallo zio e tutore dei due nipoti orfani Miles e Flora di cui egli non intende categoricamente occuparsi.
Ben presto la giovante istitutrice si accorge che nella casa aleggiano pesanti e macabri segreti. Miles e Flora sono infatti terribilmente connessi con gli spiriti di Mr Quint e Miss Jessel, servo e istitutrice un tempo impiegati presso Bly e poi misteriosamente defunti dopo essere stati sospettati di raccapriccianti relazioni intime con i ragazzi.
Le visioni e apparizioni dei due maligni spettri sono sempre più invadenti, fino ad interagire direttamente con i personaggi. Mrs Grose, che sembra custodire i segreti della villa, è ambigua ed evasiva istigando nell’istitutrice dubbi e timori, finché ella si decide irriducibilmente a combattere da sola contro i due demoni e salvare così l’anima ancora non definitivamente corrotta dei bambini. La missione sembra ostacolata dagli stessi ragazzini, prima da Flora, che fugge di casa per intrattenersi con il fantasma di Miss Jessel in riva ad un lago e poi da Miles, istigato da Mr Quint a sottrarre la lettera che l’istitutrice, dopo tormentose riflessioni, aveva deciso di scrivere allo zio tutore contravvenendo all’ordine ricevuto di non disturbarlo per nessun motivo.
Dopo una notte di sinistri incubi Mrs Grose decide di fuggirsene con Flora, mentre l’istitutrice resta nella villa insieme a Miles col quale inizia un dialogo serrato, come un esorcismo, in cui la coscienza del ragazzo è dilaniata tra le domande dell’istitutrice e le minacce di Quint. Alla fine lo spettro del servitore abbandona il ragazzino alle cure maniacali della giovane donna, fra le cui braccia, sfiancato dallo scontro schizofrenico, Miles cade esanime.
La musica di Britten è un vero e proprio “giro di vite” introspettivo e serrato, una rielaborazione continua degli stessi temi, alternando scrittura tonale e dodecafonica, frasi dissonanti e melodiche, il tutto intercalato dalla stessa “serie” (il tema della vite) che apre ogni scena. Le citazioni sono molte, tutte dalla tradizione musicale europea, dalle filastrocche e salmodie recitate dai due ragazzini ai ritmi jazz che sembrano emergere qui e là, dalla sonatina galante per pianoforte eseguita da Miles agli arpeggi e vocalizzi barocchi di Quint, per finire con la sorta di passacaglia finale in dissolvenza. Tutta la partitura è una colonna sonora interattiva, quasi fosse l’animo stesso dei personaggi a risuonare, eco dei richiami e delle passioni che vivono sulla scena. Così il gong che richiama Flora a Miss Jessel o la celesta e il flauto che sostengono i dialoghi dell’istitutrice coi fantasmi, e ancora le campane, in lontananza, unico, sfuggente e vano sembiante di angelica salvezza.
Notevole la direzione del maestro Christoph Eschenbach, scrupoloso e attento al minimo dettaglio. I tormenti, le dinamiche e la costruzione ritmica svelano il loro tessuto con disinvoltura, grazie anche alla maestria dell’organico orchestrale, senza cedere ad una lettura semplicistica o distaccata.
In buca i pochi strumentisti previsti dalla partitura cameristica vengono impegnati senza riserve, dovendo interpretare le continue trasmutazioni delle pulsioni dei personaggi in un domino sempre più travolgente. Duetti, assoli, pieni d’orchestra, mutamenti ritmici e di andamento non danno tregua ai maestri scaligeri, ottimamente diretti da Eschenbach.
Ugualmente impressionante l’esibizione del cast. Si fa notare l’istitutrice di Miah Persson, con voce luminosa eppure capace di toccare tutte le corde dell’espressività. La Persson riesce ad interpretare con fervore il percorso di distruzione ed autodistruzione della giovane donna incappata in una spirale di delirio. Ben riposte le aspettative nei confronti di Ian Bostridge, Mr Quint, che modula la voce sottile e beffarda adattandola al ruolo del viscido seduttore e scandisce le parole con ipnotica perfezione.
Intrigante e convincente la voce di Allison Cook, Miss Jessel, piena ed espressiva, scura seppur affilata, in contraltare con quella più vivace della Persson. Bravissima Jennifer Johnston, Mrs Grose, di timbro pastoso e rassicurante, seppur forse poco a proprio agio nella difficile parte della sfuggente governante. Davvero incantevoli per la bellissima esibizione le due voci bianche del Trinity Boys Choir di Londra Louise Moselev, Flora, e Lucas Pinto, Miles. I due giovani cantanti stupiscono non solo per intonazione e precisione della voce, spesso a cappella, ma anche per l’interpretazione convinta ed emozionante con cui impersonano ruoli tra i più complessi e profondi del repertorio di voce bianca. Certo, Flora appare forse un poco rigida e Miles rischia di strozzare qualche attacco, ma resta un’interpretazione del tutto soddisfacente e da pieni voti.
Di dubbia riuscita ci è parsa invece la messinscena del regista Kasper Holten, con scene, costumi e video di Stefen Aarfing, luci di Ellen Ruge e drammaturgia di Gary Kahn.
Senza dubbio l’ambientazione belle époque e le tinte bianconere sono azzeccate, ma l’impianto basato sullo spaccato della casa a più piani che s’alzano e scendono ci ricorda un po’ troppo “La cena delle beffe” di Giordano, regia di Mario Martone, allestita alla Scala solo qualche mese fa e che già aveva sollevato alcuni dubbi tra la critica.
Ci piace l’intuizione delle piccole e anguste stanze da letto, sovrapposte sulla destra, contrapposte all’ampio salotto che campeggia la scena, ma del tutto fuori luogo sembra lo scantinato sotterraneo, completamente bianco e vuoto, in cui agisce prevalentemente Miss Jessel. Se da una parte è rintracciabile il riferimento al contrasto fra interiorità ed esteriorità, solitudine e affollamento, diventa più tortuoso interpretare lo squallido seminterrato che sostituisce il parco e il lago citati nel libretto (forse un eccessivamente desolante abisso dei sensi?).
Molto cinematografiche le quinte laterali e verticali nere che si aprono e chiudono da tutti e quattro i lati sugli ambienti di volta in volta interessati dall’azione, come l’obiettivo di una fotocamera su cui, elemento discutibile, vengono proiettate immagini in chiaroscuro, espediente ormai abbastanza ritrito.
Interessante l’uniformità d’abbigliamento tra l’istitutrice e Miss Jessel, la quale però si lascia andare un po’ troppo alle allusioni mimiche esplicitamente sessuali, cenni di un lascivo erotismo qui esaltato in maniera forse poco avveduta. Carino, ma in antitesi col contesto, il letto in verticale nel quale dialogano Quint, Miss Jessel e l’istitutrice, unica visione della stanza della protagonista, scena liberamente interpretata dalla regia.
Poco entusiasmante il finale, nel quale Miles muore in solitaria, a terra con la testa immersa nel sangue, con cui l’istitutrice imbratta la propria candida camicia durante l’ultimo e straniato abbraccio. Truce la comparsa del rosso, unico colore in due ore e mezza di spettacolo, in una situazione che però somma mistero al già enigmatico libretto.
L’esito dello spettacolo è più che soddisfacente, ma da un regista di fama internazionale come Holten ci si poteva attendere maggiore originalità e incisività, qui piuttosto irrintracciabili. Il teatro, più affollato del prevedibile, ha applaudito con convinzione interpreti e orchestra e con caloroso affetto le due voci bianche, mentre è stato avvertitamente più freddo nei confronti della regia.