
Un cembalo, arpe, corni e oboi e un paesaggio lunare introducono al corteo funebre che accompagna, portata a braccio, Euridice. Sulla fossa che ne sarà tomba l’attende in lamentoso affanno Orfeo che chiama il suo “ben”. Questa la litania che fa da leitmotiv per tutti e tre gli atti, in uno solo, portati in scena da Robert Carsen al teatro dell’Opera di Roma. Spicca su tutti la particolare voce del controtenore Carlo Vistoli, che nella partitura originale sarebbe stato di un contralto castrato. Ma la musica come il testo non ha guizzi le tre voci tutte su tonalità sopranili poco affezionano gli amanti del bel canto lirico ovvero del melodramma con la “M” maiuscola.
Orfeo piange la morte della sua Euridice e commisera di essere rimasto solo senza di lei e non se ne da pace. Riesce il suo dolore a far presa su Amore, Emőke Baráth, anch’ella soprano che riesce a portarlo negli inferi e qui le luci da bianco lunare si fanno rosse. Fiaccole tutte intorno all’ovale scenico portano in rappresentazione il fuoco dell’Ade. Non è gradito l’ingresso di lui agli Inferi, disturbati dal suo smanioso cercare Euridice colà, tra tanti simulacri o larve o mostri, tutti simili e indistinguibili e alle sue domande di comprensione ne seguiranno una sequela di “No”.
L’incontro tra i due crea ansia e non piacere, né distensione, né amore e passione: egli preso dall’ansia di far presto ed ella attonita dell’essere stata distratta al suo tranquillo giacere senza ricevere in cambio baci, abbracci e ardore, o tenerezze. Una storia senza storia, un amore senza passione, talora monotono e poco avvincente e la musica non cresce e non varia, mostra le medesime caratteristiche, lamentosa ma senza vibrazioni di contrasto. Un’impresa questa di rappresentare Orfeo ed Euridice di Gluck al Teadro dell’Opera di Roma dopo ben 51 anni interessante, ma di chiara evidenza del perchè l’attesa sia stata così lunga: occorreva che si creasse nuovo pubblico perche potesse di nuovo destare curiosità.
E siamo alla richiesta di Euridice, il soprano Mariangela Sicilia, di morire non soddisfatta dell’accoglienza del suo Orfeo ed eccola nella fossa supplice per essere portata nel regno dei morti. E ci risiamo e lui di nuovo solo ripiange, infinite volte “Che farò senza Euridice?”, Che farò senza il mio ben?” e la scena si chiude con un cerchio di comparse o coristi tutti in nero moderno, quasi mormoni, come fosse un fanciullesco girotondo festoso per il nuovo ritorno di colei tra i vivi ad opera di Amore ancora una volta impietosita. Quasi fosse un festa nuziale ma anche qui l’abbraccio freddo c’è, ma il bacio no ed il pubblico è entusiasta, non i loggionisti! E siamo di nuovo al glaciale senza forme, solo terra e candore lunare. Tutto è scarno solo le luci fanno scena e movimenti processionali e la musica di Gluck suonata dall’orchestra diretta dal maestro Gianluca Capuano.