Il nero s’addice a Luisa (Miller)

[rating=3] La scena ricorda un po’ quella – pluripremiata e com’essa tanto discussa e osannata al tempo stesso – della Cavalleria delboniana, (e se si vuole, pure della Butterfly con lo stesso regista) virata, la prima, al rosso affocato di Sicilia e del dolore e del sangue vivo delle passioni, al bianco dell’assenza la seconda, della perdita senza tregua e riparo e compenso; stavolta Sergio Tramonti costruisce la sua scena raddensandola nel nero opaco e cieco della violenza e della sopraffazione, ma il senso claustrofobico di fame d’aria e di narrazione inesausta di sogni impossibili infranti e raggelati è lo stesso delle precedenti. E sono strutture altissime che s’aprono e si muovono in nere increspature (di roccia?) a chiudere l’orizzonte borghese di Luisa, che sogna l’amore eterno e romantico col Carlo/Rodolfo suo: se all’inizio la svegliano gli amici togliendola al suo letto (quel letto che rimarrà dall’inizio alla fine al centro della scena, a spezzare col candore delle sue lenzuola la notte eterna del sonno della giustizia e dell’amore) in una scena dal candore e nitore belliniano, saranno gli stessi che a quello stesso letto infine accorreranno a piangerne la morte: nel frattempo, e nel mezzo, quell’orizzonte già opaco e chiuso, che mai ha conosciuto la lontananza e la profondità dello sguardo, sempre più si rinserra, s’accartoccia, si restringe fino a comprendere lo spazio solo del letto, chiuso dalla violenza, dai calcoli degli uomini, dalla sete di potere e d’arroganza degli “altri”: brutalità e abuso che Luisa imparerà a conoscere, e che progressivamente la protagonista a sue spese, nel dolore e nell’angoscia, ripetutamente subirà, e il cui inesorabile progresso viene annunciato da sinistri giri di vite che con metaforico scricchiolio (attraverso l’immagine della caduta di calcinacci), avvertendo che un altro passo verso l’inferno si compie, una nuova situazione si crea a danno suo, un altro pezzo della sua serenità e della sua vita è persa per sempre.

Luisa Miller_regia De Rosa

La regia di Andrea De Rosa trae tutto il possibile dalla musica di Verdi in quest’opera di mezzo, che chiude la giovinezza risorgimentale del Va pensiero e, insieme al Macbeth, annuncia già la grande stagione della trilogia romantica: sta maturando in Verdi, in altre parole, in questo momento, quella concezione pienamente romantica e manzoniana della Storia dei Popoli e delle Patrie che si riverbera, e in qualche modo viene a farsi, attraverso la storia e le vicende dei piccoli e dei miseri; perfezione d’equilibrio che il Maestro inseguirà per tutta la vita, fino ad Aida e, in diverso modo, ai capolavori estremi. Qui, siamo ancora, come detto, all’inizio di questo percorso artistico: e se Macbeth è potente e tragica parabola sul potere, Luisa è quasi il suo contraltare, allegoria del dolor dei miseri che violenza subiscono dai potenti e che in null’altro riscatto potranno sperare, se non nella morte, in promesso e consolatorio aldilà. E così Verdi sceglie di narrar questa storia a partire da questa concezione del destino che è dei miseri e dei poveri e degli afflitti, ma che tenta di farsi storia opponendosi alle angherie e ai soprusi dei potenti. La Sinfonia iniziale, di così inusuale lunghezza e complessità, a detta di tanti non è, come di solito l’ouverture, scritta alla fine, quasi condensato dell’opera che di lì a poco si dispiegherà sulla scena, ma invece composta prima, a diventar senso e origine e tono dell’intera vicenda. E questa tonalità è certamente oscura ed espressiva, come oscurissima ed espressiva è la musica di tante scene, in contrasto netto colla beata pulizia delle prime. La regia trasporta la vicenda in un luogo “altro”, che col Tirolo del libretto alcuna parentela riconosce (ma che come in tante vicende d’opera è ambientazione improbabile e del tutto priva di caratterizzazione), e che invece con un certo Sud delle cosche nere e ferrigne e potenti e ricche ha sicura familiarità (e i non banali costumi di Alessandro Lai così bene caratterizzano tale dichiarata affinità), e in un tempo che ha il sapore della contemporaneità nostra, complicata e perversa. E se Walter ha proprio l’aria d’un gelido capoclan, il figlio Rodolfo sembra proprio (è cronaca) il rampollo che, in un travaglio complesso e irrisolto, cerca di scrollarsi di dosso l’onore della famiglia e i doveri che a un buon capo competono. Non è piaciuta a tutti, questa regia di De Rosa, anche se poi non si comprendon bene le motivazioni d’un dissenso che arriva a manifestarsi perfino in fischi violenti alla fine della prima. Questo, a leggere le cronache, in verità, perché nella rappresentazione cui ho assistito, del 9 maggio, gli applausi si sprecavano (fin troppi, in verità, e certe volte mi son sembrati chiaramente espressione di ben orchestrata claque); ma si sa, clamorosi fischi e fragorosi applausi han sempre fatto parte della storia dell’Opera e, se non guidati ad arte, son sicura espressione della vitalità d’un genere amato e popolare. A me la regia è sembrata certamente cruda e dura e naturalisticamente verista nell’esposizione dell’idea, molto equilibrata e chiara, cioè, nel messaggio che intendeva dare, che trovo perfettamente in linea con le intenzione dell’autore; dirò di più: la modernità della scena e del gesto drammatico dei bravissimi e molto ben guidati attori (di cui diremo tra poco), tanto da farti dimenticare, per lunghi tratti, che si trattava di un’opera ottocentesca, incredibilmente bene si sposava con la musica del Maestro, che appariva quasi in veste nuova, d’una modernità e d’un nitore addirittura sconcertante. Si guardi, a mo’ d’ esempio al quartetto del second’atto, Come celar le smanie, dove il canto a cappella si sposa mirabilmente con l’opacità assoluta della scena a contrasto con l’accesa luce gialla che illumina le facce dei protagonisti ed espressionisticamente scava nelle anime loro, restituendo intatto a noi moderni il senso esatto della far musica di Verdi, chiara e limpida come poteva risultare ai contemporanei d’allora. Crediamo che questo, al di là delle sterili polemiche su modernità e tradizione, che lasciano il tempo che trovano, sia il dovere d’una onesta regia, che ci fa (ri)assaporare la perenne attualità delle musica dei grandi.

Luisa Miller_regia De Rosa

E certamente a servizio della musica del Maestro è apparsa la direzione del giovane Daniele Rustioni, vero enfant prodige della musica italiana, allievo di Pappano e di Noseda, che, per la prima volta a Napoli, ha dato energica prova della sua giovanile esuberanza, tutt’uno con un gran rigore espressivo. Avevo già avuto modo di assistere alla sua direzione, prima a Bari in quel Falstaff ronconiano comprodotto col San Carlo che qui a Napoli ancora dobbiam vedere, poi l’anno scorso sempre al Petruzzelli di cui era allora direttore artistico: il caso ha voluto che l’opera fosse la Traviata bizantina d’Ozpetek e che Violetta fosse, come Luisa oggi, interpretata da Elena Mosuc. Corrispondenze e suggestioni dovute a fortuite circostanze ma che m’han dato modo di riascoltarli e rivederli entrambi, e che mi fan confermare l’impressione d’allora: se per la Traviata Rustioni salvò – quantomeno – la parte musicale, per il Falstaff servì sul piatto d’argento la musica al gran Ronconi, facendone derivare un piccolo grande capolavoro, come è accaduto oggi. Ottimo tutto il cast, a cominciare dal Coro, diretto da Marco Faelli, sempre attento e presente: come in (quasi) tutto Verdi il coro è il Popolo, la Patria, nella visione storicistica e romantica di cui abbian detto: quest’opera non fa eccezione e la sua presenza discreta e mai ingombrante è il segno d’una grande maturità dei singoli e d’una attenta e consapevole direzione. Per tutti, coro e attori, vale il fatto di saper muoversi in scena come un attore deve muoversi, e questo non è per nulla scontato trattandosi d’opera lirica, in cui spesso l’interprete, magari dotato d’ottima voce, dimentica o tralascia d’esser attore oltre che cantante, col tipico disastroso effetto da sacchi di patate in scena: Marco Spotti restituisce un Wurm laido e strisciante dalla violenza gelida e a stento trattenuta, esaltata dalla caratterizzazione della zoppia; il Walter di István Kovács è, benché appaia di giovane età, certamente in parte nei panni del boss pronto a sacrificare ogni affetto; Nino Surguladze è l’avvenente duchessa Federica seducente nella sua prorompente fisicità oltre che negli accenti vellutati e morbidi della voce sua; Vitaliy Bilyy disegna un padre convincente e realistico, dagli accenti nobili e accorati; Giorgio Berrugi, molto applaudito, è una promessa che si conferma: voce dal timbro chiaro e naturale, dà sempre impressione di grande tranquilla sicurezza, sapendosi muovere con gran sicurezza sul palco.

Che dire di Elena Mosuc, se non che è una delle più grandi interpreti verdiane oggi in circolazione; probabilmente, per questa parte di Luisa, arrischio a dire esser la migliore. E non si creda che, trattandosi d’opera da molti considerata – a torto – minore, questo costituisca in qualche modo una diminutio. Si ricordi che Verdi sconsigliava di mettere in scena la Luisa Miller in mancanza d’ottimi interpreti, essendo tutte le parti ardue musicalmente, nè che Cammarano, pur tagliando e semplificando la trama rispetto all’originale di Schiller, non ha per nulla impoverito la psicologia dei personaggi, che risultano di grande effetto scenico, proprio grazie alla loro complessità. Insomma, per cantar bene Luisa Miller ci vuole una gran cantante e una grande attrice: sicuramente, da ogni punto di vista, Elena Mosuc è l’interprete ideale, e ne son prova gli scroscianti applausi che si alzano alla fine della rappresentazione a tributarne il successo.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here