Il caso de I due foscari

Alla Scala di Milano l'opera verdiana nella debole regia di Hermanis

[rating=3] I due Foscari di Hermanis e Mariotti non hanno incontrato il favore del loggione. L’opera, che mancava dal Piermarini da molto tempo, ma che pure rientra nel novero dei capolavori verdiani tra i più noti ed eseguiti, ha segnato le prime vere e vistose polemiche della stagione scaligera. Lo sdegno dei melomani si è concentrato perlopiù sul direttore e sulla Lucrezia di Anna Pirozzi, la critica si è contrariata invece rispetto alla regia e alle coreografie.

In effetti lo spettacolo non si può dire riuscitissimo, nonostante i fischi e i bu ci siano sembrati eccessivi. In particolare, per chi scrive, non ha affatto convinto la regia, sospesa senza particolari ragioni tra il realistico e il metafisico.

Giuseppe Verdi scrisse I due Foscari, nella prima versione, per il Teatro Argentina di Roma nel 1844, ma è quasi difficile credere, per il colore, la trama e lo stile, che l’opera sia successiva a titoli esuberanti e fragorosi come Ernani, I Lombardi alla prima crociata e Nabucco. Del resto si era ormai nel pieno degli anni che la storiografia musicale chiama “di galera”, quel periodo tra il 1842 e il 1849 in cui Verdi scrisse una dozzina di lavori a ritmo infernale.

Sono gli anni della sperimentazione spiccia, che abbiamo già assaporato con Giovanna d’Arco nella Prima della Scala di questa stagione. I cenni delle maturazioni successive sono disseminati ma mai sviluppati e i dubbi sulla riuscita degli spartiti e dei libretti sono spesso subito intuiti dal compositore stesso.

I due Foscari

De I due Foscari Verdi riconobbe all’istante, e ammetterà più tardi, la debolezza generale dell’opera dovuta ad una tinta fosca e lugubre uniforme durante tutti gli atti e al monotematismo della trama. Ciononostante in questo titolo egli inaugura, pur timidamente, l’uso dei leitmotiv, scava nei dettagli intimi e psicologici e introduce elementi di innovazione armonica e di orchestrazione.

La storia è tratta liberamente dal dramma omonimo di Lord Byron, ispirato alle vicende storiche, politiche e giudiziarie della famiglia patrizia veneta dei Foscari. Il libretto è del Piave, con l’immancabile presenza delle dirette indicazioni verdiane, e racconta la storia di Jacopo Foscari, ingiustamente incarcerato ed esiliato dalla magistratura veneta durante il dogato del padre Francesco, con lo sconforto e l’incredulità della moglie Lucrezia Contarini e la soddisfazione del nemico politico Jacopo Loredano. Il Doge, impotente e devoto alla legge, profondamente turbato dai rimproveri di Lucrezia, non può far altro che pregare ed invocare la giustizia divina. Tra le pieghe dei dibattimenti del Consiglio dei Dieci, mentre il popolo è in festa per le regate lagunari, Jacopo, incarcerato e condannato a vivere esiliato senza il conforto della famiglia, muore per il troppo dolore. Subito dopo, non riuscendo a sopportare la perdita dell’ultimo suo figlio e umiliato dalla decisione del Consiglio dei Dieci di destituirlo, spira anche il Doge Francesco. Morti i due Foscari, i magistrati veneti si rendono conto dell’efferatezza con cui hanno agito sotto l’egida della legge e della Repubblica e rimproverano l’arroganza di Loredano. La tragedia è però ormai irreversibilmente compiuta.

Alvis Hermanis, la cui audacia e intuizione abbiamo apprezzato al Piermarini già l’anno scorso con Die Soldaten, in un allestimento visionario e allo stesso tempo teatralissimo, ha deluso le aspettative.

Scena sgombra, a tinte pastello, costumi che riecheggiano la foggia rinascimentale e qualche elemento di scena a rimembrare le architetture veneziane: assenza completa di profondità e di pienezza e una pedante sospensione nel vuoto che vorrebbe affidare alla musica un eccessivo onere immaginifico.

Ridicoli e superflui i giovani ballerini dell’Accademia scaligera, impegnati in ruoli da mimi nelle vesti ora di vogatori popolari ora di deputati del Consiglio dei Dieci, secondo le coreografie di Alla Sigalova. Imbarazzante la collezione di leoni di San Marco, copie di statue e disegni originali di epoche, funzioni e pose diverse, nella scena delle prigioni.

Molto suggestiva, invece, una scena che è diventata emblematica dell’allestimento: il momento dello struggente saluto di Jacopo al padre e alla famiglia, nelle stesse pose di un quadro di Hayez che campeggia sullo sfondo. Musica, cantanti e scenografia si fondono in una sinestesia di riferimenti specchiati. Comunque debole, rispetto alle potenzialità che un’interpretazione simbolica e onirica dell’opera poteva pure fornire.

I due Foscari

La regia fiacca e pallida non è stata però il bersaglio principale del loggione. Il pubblico di casa ha concentrato gli strali sull’esecuzione del direttore Michele Mariotti e sull’interpretazione di Anna Pirozzi, Lucrezia Contarini.

Alla bacchetta di Mariotti sono stati rimproverati, tra le altre cose, eccessivo tecnicismo, a discapito del colore e delle sfumature, e troppa accondiscendenza nei confronti dei cantanti. Una direzione che invece ci è sembrata del tutto in linea con una lettura storicizzata e riattualizzata del Verdi di quegli anni, che non necessariamente deve essere interpretato alla luce della sua produzione artistica successiva o come il pubblico meneghino, notoriamente tradizionalista, si aspetta.

Alla Pirozzi è stata contestata un’interpretazione fuori dal personaggio, tecnicamente e vocalmente sotto tono. A dire il vero, il limite dell’esibizione di Anna Pirozzi, che riconosciamo, è stato il timbro scuro e corposo e le qualità generali della sua voce, forse non propriamente adatte al ruolo quasi virtuosistico della fragile, volubile e disperata Lucrezia.

Senza dubbio eccezionale il tenore Francesco Meli, in arrestabile ascesa dopo il trionfo nella Giovanna d’Arco del 7 dicembre. La sua voce squillante e drammatica al tempo stesso lo rende un magnifico interprete verdiano, con qualità tecniche in continuo affinamento. Convintamente nel ruolo, ha interpretato ottimamente la complicata parte di Jacopo Foscari.

Nei panni di Francesco Foscari non abbiamo potuto apprezzare la voce di Placido Domingo, che ha inaugurato così la sua nuova carriera di baritono al Teatro alla Scala. Nella recita del 18 marzo si è esibito nella parte principale l’italiano Luca Salsi, di provata esperienza nel ruolo di “padre verdiano”. Molto applaudito per l’interpretazione così intensa ed espressiva.

Fenomenale il coro, onnipresente nonostante il carattere intimo e patetico dell’opera. Diretto dal maestro Bruno Casoni il coro della Scala ha aperto e chiuso l’opera inanellando il capolavoro con un’esibizione magistrale. Casoni riesce ad adeguare il colore generale dei coristi scaligeri ai contesti e alle interpretazioni più diverse, come in questi Due Foscari, così concentrati sul terzetto protagonista.

Bene anche le parti minori. Jacopo Loredano di Andrea Concetti, defilato ma incisivo. Barbarigo, di Edoardo Milletti, il Fante Azer Rza-Zada e il servo Till von Orlowsky, in brevissime parti ben interpretate. Molto bene la Pisana di Chiara Isotton, contralto sempre più frequente sul palco del Piermarini nelle vesti di voce secondaria.

Severissimo il pubblico, come abbiamo già detto, molto più duro e pretenzioso del dovuto. Ma è anche questo il Teatro, una sala semibuia che compartecipa alla realizzazione di un miracolo, dal quale si aspetta ed esige di essere catturata e ammaliata senza delusioni o disillusioni.

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