
[rating=3] Tra i balletti più famosi ed apprezzati in tutto il mondo, Lo Schiaccianoci è senza dubbio uno dei più suggestivi e memorabili, ricoprendo il primato per numero di rappresentazioni. La fortuna impareggiabile dei motivi, nessuno escluso, e l’utilizzo più vario delle famigerate musiche, lo rendono uno spettacolo apprezzato da ogni tipo di pubblico.
Di fronte allo Schiaccianoci anche lo spettatore meno informato possiede qualche aspettativa fondata su reminiscenze più o meno vaghe (la colonna sonora di qualche film o pubblicità, se non la famosissima Fantasia di Disney o qualche produzione televisiva) e lo stupore vero e proprio dello spettacolo è tutto affidato al rinnovamento o alla conferma di coreografie, scene e costumi e alla particolare interpretazione della storia, con le sue molteplici varianti.
Nel repertorio del Teatro alla Scala esistono diversi “Schiaccianoci”, tra cui uno dei più pregevoli è quello di Frédéric Olivieri, per la Scuola di ballo dell’Accademia scaligera, che abbiamo appena potuto godere nella sua versione per il Piccolo Teatro Strehler di Milano (leggi la recensione). Quello in scena in queste settimane al Piermarini è invece frutto della creatività di Nacho Duato, al secolo Juan Ignacio Duato Bárcia, già offerto al pubblico nel 2015.
Come la maggior parte degli artisti di spettacolo contemporanei, Nacho Duato ci propone una concezione organica della storia della danza e del balletto, facendo uso sincretico di diverse forme espressive, tradizionali e moderne.
Quello di Nacho Duato non è uno Schiaccianoci classico, ma nemmeno anticlassico, e questa ambivalenza è sia punto di forza che di debolezza nei confronti del paragone che lo spettatore è naturalmente portato a fare con le versioni coreografiche più “filologiche” o a quella dell’intramontabile Rudolf Nureyev, che per lungo tempo ha predominato alla Scala.
Il coreografo valenciano taglia e cuce la partitura, snellendola senza stravolgerla, introduce un prologo recitato, o meglio registrato, e ricostruisce la trama, pur nel rispetto della tradizione, ambientandola a inizio ‘900. Il risultato non è così innovativo come si potrebbe credere e bene fa Nacho Duato a confessare: “Definirei il mio Schiaccianoci neoclassico, anche se per certi versi è classico. Qui la cosa più importante, tuttavia, non è il virtuosismo, ma qualcosa di più che proviene direttamente dal cuore.”
Della magica storia della notte di Natale, durante la quale la giovane Clara viene accompagnata dal suo giocattolo vivificato, il Principe Schiaccianoci, verso l’incantato Paese dei Dolci, dopo aver affrontato il Re dei Topi e aver attraversato il Reame della Neve, restano tutte le suggestioni allegoriche e metaforiche. Particolare rilievo è dato al viaggio nel tempo e nello spazio, simbolo della formazione della bella, curiosa e coraggiosa Clara.
Ancora una volta il riferimento diretto del libretto, nel rispetto dell’originale, è il racconto di Hoffmann “Schiaccianoci e il re dei topi” nella versione più leggera di Alexandre Dumas.
Le scene e i costumi di Jerome Kaplan, a dire il vero, non colgono esattamente nel segno desiderato. Piuttosto semplificati gli abiti dei danzatori, secondo un umorismo che, per quanto sottile, resta abbastanza fuori luogo, con tinte ora pastello ora sgargianti e di foggia quasi carnevalesca (come bicorno nero e zimarra bianca dello Schiaccianoci). Ugualmente poco avvincenti i pochi elementi di scena che, invece che coinvolgere e descrivere, distraggono e disturbano (tra tutti lo scheletro d’ombrellone della danza orientale, il cuore calato a mezz’aria del pas de deux e il grande pasticcino sul fondo del palazzo della Fata dei Dolci).
Il fondale fisso tra i due atti con scritta ad arco “Lo Schiaccianoci” su sfondo stellato blu ricorda molto il gusto kitsch alla Ballo Excelsior, di cui ormai si potrebbe benissimo fare a meno. D’effetto l’albero di natale, ricavato lasciandone trasparire la forma dal fondale stellato, e il palazzo della Fata dei Dolci, con semplici quinte identiche, ritagliate e decorate, in prospettiva.
Rispettosa ed evocativa della tradizione da ballet blanc la scena nel Reame della Neve, con una coreografia che gioca tra i passi contemporanei della coppia protagonista e le figure tradizionali delle file di Fiocchi di Neve, con il classico contrasto tra il bianco dei tutù e il buio di scena, sottolineato dalle piccole fiaccole che le ballerine sorreggono danzando in punta di piedi sul fondo del palco.
Interessante l’interpretazione scanzonata e beffarda della danza russa, anche se a dire il vero ci si sarebbero aspettati, e non sarebbero stati fuori di poetica, i salti alla cosacca tipici del trepak. Rimane invece un po’ deludente vedere i quattro marinai limitarsi a capriole e giravolte da caserma.
Da segnalare l’intervento delle marionette della compagnia Carlo Colla nel primo atto.
Poco incisiva la direzione del maestro Vladimir Fedoseyev, che pure ci aveva convinto sul podio con “La bella addormentata nel bosco” di qualche mese fa. Del tutto sbilanciato il timbro dell’orchestra, con interventi dei bassi a volte davvero eccessivi, incoerenti la ritmica e le dinamiche, deformando alcune celebri melodie, per un risultato del tutto sotto tono. Molto bene invece il coro di voci bianche, sotto l’attenta e scrupolosa cura del maestro Bruno Casoni, vero e proprio gioiello dello spettacolo.
Il balletto di Ciajkovskij del 1892, ideato in stretta collaborazione con Petipa e coreografato da Ivanov, offre da sempre una perfetta palestra di tecnica ed espressività per i ballerini classici di ogni Paese. Il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala, la cui qualità è notevolmente cresciuta negli ultimi anni, si è cimentato sulle musiche dello Schiaccianoci in diverse occasioni e non ha mai mancato di fornire ottima prova di sé. Non fa eccezione in questa occasione, sui passi di Nacho Duato, di carattere sempre morbido, intimamente lineare ed esteticamente minimale.
Affiatata e coinvolgente la coppia protagonista, Clara di Nicoletta Manni e il Principe Schiaccianoci di Claudio Coviello, tra i principali solisti del Corpo di Ballo scaligero, che hanno strappato un caloroso e convinto applauso.
A dominare il primo atto le marionette viventi Christian Fagetti, Alessandra Vassallo e Matteo Gavazzi, su passi decisamente moderni, ben interpretati. Molto bene Fritz di Walter Madau, nei panni del fratellastro vivace e disubbidiente. Un poco defilati i ruoli di Drosselmeyer di Edoardo Caporaletti e dei coniugi Stahlbaum Alessandro Grillo ed Emanuela Montanari. Convincente nel ruolo tragicomico e animalesco Emanuele Cazzato, il Re dei Topi.
Notevoli Alessandra Vassallo e Riccardo Massimi nei passi della danza spagnola, Virna Toppi e Nicola del Freo per la danza francese e la danzatrice araba di Maria Celeste Losa, sinuosa ed acrobatica.
Limitati da una coreografia poco entusiasmante Denise Gazzo, Licia Ferrigato, Eugenio Lepera e Matteo Gavazzi nella danza orientale e i già citati marinai russi Salvatore Perdichizzi, Marco Messina, Fabio Saglibene e Andreas Lochmann, chiamati anche a fischiare, battere le mani e gridare.
Perfetta sincronia e consonanza di tutti i ballerini nelle scene d’insieme, dalla Grossvater Tanz al valzer dei fiori (nel quale si sono esibiti Martina Arduino, Vittoria Valerio, Giulia Schembri, Chiara Fiandra, Massimo Garon, Walter Madau, Angelo Greco e Christian Fagetti), senza sbavature e sempre a tempo, per un risultato che riesce a impressionare allo stesso modo gli appassionati di lunga lena e i giovani curiosi.
Lo spettacolo, grazie ad una trama da favola onirica e ad una musica celeberrima, che unisce folklore internazionale, forme classiche e gusto romantico con colori pacatamente struggenti, riscuote un prevedibile clamoroso successo, che combacia con l’impatto decisamente contraddittorio e provocatorio della proposta “minimalista” di Nacho Duato e Jerome Kaplan.