Dalla Russia con passione

Continua a Napoli, al Teatro San Carlo, la Stagione Sinfonica con il Concerto diretto da Juraj Valčuha, violino solista Valeriy Sokolov, musiche di Aleksandr Glazunov, Sergej Prokofiev, Sergej Rachmaninov

Concerto particolarmente interessante, quello di ieri sera al Teatro San Carlo di Napoli, che non ha mancato di entusiasmare il pubblico che riempiva il Massimo partenopeo come nelle grandi occasioni: prima di tutto per il valore degli interpreti, Juraj Valčuha che ha diretto con il solito piglio e la solita precisione, ma in particolare stato di grazia, l’Orchestra del San Carlo, che in questi ultimi tempi sembra migliorare ad ogni performance, e Valeriy Sokolov, il giovane violinista ucraino di cui si son lette meraviglie, al suo atteso esordio a Napoli e che certo non ha deluso chi le annunciate mirabolanti imprese si aspettava.

Il secondo motivo di interesse era certamente legato al particolare colore e sapore che si è provvidamente scelto di far assumere a questo Concerto: è da diverso tempo, ormai, che la direzione musicale di Valčuha al San Carlo si caratterizza per l’esplorazione di particolari tempi e spazi, alla scoperta di storie e geografie finora trascurate, se non del tutto sconosciute. La rotta tracciata questa volta prevedeva un ricco e seducente quanto insolito viaggio nella Russia della prima metà del secolo breve, cercando e trovando la quadra tra forti legami alla tradizione folklorica e sinfonica della Gran Madre e spinte innovative che provenivano dalle novità ricercate della vecchia Europa o dal melting pot nordamericano e che interagivano, in maniera quasi mai coerente, con le istanze autoctone generate dalla rivoluzione comunista: un impasto, un amalgama non piattamente omogeneo ma, invece, del tutto singolare.

Si son assortiti, allora, e accortamente, tre compositori – e dunque tre dei loro lavori particolarmente significativi – proprio per permettere di seguire, come ricercatori attenti, a chi sedeva in platea in una bella serata contemporanea a Napoli, tracce di un percorso umano ed artistico estremamente vivace ma finora situato su sentieri ben poco battuti, almeno nella nostra particolare attuale storia e geografia: coordinate anomale inseguendo le quali è facile perdersi se non portati per mano da guide d’eccezione.

Juraj Valčuha riveste sicuramente questo ruolo: anche chi lo critica – c’è sempre qualcuno che legittimamente canta fuori dal coro – senz’altro gli riconosce gran competenza e conoscenza proprio di questo specifico repertorio, mentre i suoi estimatori – chi scrive è senz’altro tra questi – son pronti a scommetter sulla sua grande professionalità e sensibilità che gli consente ottimi risultati pure al di fuori degli angusti confini in cui i detrattori vorrebbero circoscrivere l’arte sua. Il giovane violinista ucraino Valeriy Sokolov è, invece, come s’è detto, al suo esordio a Napoli e si dice di lui che sia uno dei talenti migliori comparsi in questi ultimi anni.

Dicono le cronache che, nato a Kharkov nel 1986, abbia poi lasciato l’Ucraina a tredici anni per studiare con Natalia Boyarskaya alla Yehudi Menuhin School in Inghilterra, per poi continuare con Felix Andrievsky, Mark Lubotsky, Ana Chumachenko, Gidon Kremer e Boris Kushnir. È stato il primo vincitore del Concorso internazionale George Enescu, nel 2005, e si esibisce regolarmente in tutto il mondo con le principali orchestre.

Il primo brano in programma è di Alexander Glauzov: sono ben 110 le composizioni musicali che questo musicista russo ci ha lasciato, alternando la sua carriera di compositore con quella di direttore d’orchestra e di insegnante. Oltre alle 8 Sinfonie, Glazunov nutrì una particolare passione per la musica russa, incoraggiato in questo da Tchaikovsky, al quale era legato da profonda amicizia: in particolare, incoraggiato da lui, maturò la convinzione che la musica per balletto non meritasse i giudizi snobistici che musicisti e critici riservavano (e riservano) per tali composizioni. In questo quadro si colloca anche il Valzer da concerto n. 1 in re maggiore, del 1893, in un momento, cioè, in cui questo ballo, partito dalla Vienna asburgica, impazzava in tutta Europa: una composizione seducente e trasognata, dall’elegantissima orchestrazione, che ricorda, appunto, il grande amico e mentore.

La tavolozza di smaglianti colori dell’orchestra, il carattere così smaccatamente fiabesco che avvolge la composizione, la dimensione di sogno che sembra voler rinchiudere per sempre questa musica in un incanto del passato, caratterizza e denuncia la profonda avversione dell’autore per la modernità e, in particolare, per la “degenerazione” musicale che era già avvenuta con l’Après-midi d’un faune di Debussy: c’è, tuttavia, nell’interpretazione che ne dà Valčuha, un che di smagata lucidità, di serrato turbarsi che toglie la composizione dal novero delle buone cose di pessimo gusto, un occhio alla Vienna imperiale, un occhio a Tchaikovsky, per farla entrare, insieme al suo autore, nel secolo nuovo che avanza, dove troverà tuttora cittadinanza.

Il secondo brano è invece il Concerto n. 2 in sol minore, composto da Prokofiev quando si apprestava al suo ritorno in patria, nel 1933, tanto che questa è l’ultima composizione scritta in Occidente: aveva lasciato la Russia nel 1918, nel bel mezzo della guerra civile, per i più sicuri Stati Uniti, dove era diventato famoso come compositore ma ancor più come esecutore, spessissimo in giro per tournée: «II numero dei posti in cui ho scritto il Concerto dimostrano il tipo di vita nomade che conducevo allora. Il tema principale del primo movimento l’ho scritto a Parigi, il primo tema del secondo movimento a Voronezh, l’orchestrazione l’ho finita a Baku e la “prima” è stata a Madrid».

Il violino è per il compositore russo simbolo di canto libero, duttilità, flessibilità: l’apertura del primo movimento, da parte del solista senza accompagnamento, che canta una frase meditativa bassa e lirica – voce che grida nel deserto – è, per l’epoca, novità assoluta. E novità assoluta è, come detto, per noi, pure lo strumento di Valeriy Sokolov, ex ragazzo prodigio che ci rivela tutta l’arte sua talentuosa: tecnicamente perfetto, eccezionalmente dotato, ci catapulta, dalle ovattate atmosfere un po’ fané del brano fin de siècle precedente, nel secolo del tumulto, dei contrasti e del frammento, rendendoci partecipi esattamente di queste tre caratteristiche, precipitosamente alzando la temperatura in un carosello di strabiliante virtuosismo, mai fine a se stesso, sempre teso a interrompere continuamente un trattenuto lirismo, in particella fuggevole, scheggia acuminata, puntura tormentosa che conserva tuttavia, in ogni sua parte, intero il pathos dell’assoluto, che solo così sa e può esprimersi; il tempestoso finale giunge allora al culmine, in fiammeggiante ascesa, di un appassionante percorso scandito da stupefacenti salti di registro e che si scioglie, finalmente, nell’applauso fragoroso che esorcizza la tensione, chiudendo un rito di trascendentale passione, e che conduce il violinista a concedere il bis, la Cadenza del Concerto n. 1 di Shostakovich, virtusistica e folle, classica ed espressiva, che riscalda, se possibile, ancor più l’atmosfera.

Dopo l’intervallo, il terzo brano è costituito dalle Danze sinfoniche op. 45, ultima composizione di Sergej Rachmaninoff, nel 1940: nei tre anni che gli restavano da vivere, il musicista russo non scrisse altro, tranne la revisione del Quarto Concerto per pianoforte, per cui esse rappresentano una sorta di testamento spirituale, probabilmente consapevole, vista la frase scritta alla fine della partitura autografa: “Ti ringrazio, Signore”, sicuramente comprensivo delle costanti caratteristiche del musicista: il forte legame al sistema tonale, i temi di derivazione folklorica, l’autocitazione dei propri temi appartenenti a lavori precedenti, e soprattutto la presenza, in qualche modo, della sua firma musicale all’interno della suite, il tema del Dies Iræ gregoriano, sono suggestivi senz’altro dell’autentica natura di queste danze, che insistono sulla malinconia, il lirismo, la nostalgia, l’introspezione.

Juraj Valčuha guida l’Orchestra come un comandante sul ponte la sua nave, cosciente delle secche, con lo sguardo lungo delle prospettive visibili ed invisibili, rincorrendo gli elementi che potentemente rinviano ad una sofferta rielaborazione del vissuto dell’anima russa, sottolineando con arguzia gli elementi che invece aprono a Stravinsky e ad una modernità non accolta supinamente ma serenamente ponderata ed accettata, sicché il brano diventa improvvisa e provvida sintesi di passato e futuro, preghiera e bestemmia, epica e fantasia, epifania di dolorosa passione, nel rapido ma non per questo epidermico rincorrersi degli episodi affidati ai legni, al corno inglese, al sassofono contralto, fino all’obiquo martellar finale del ritmo, e all’esplosivo rumoreggiare delle percussioni che chiude, fra l’ovazione del pubblico, il Concerto.