
Grande attesa per il ritorno di Lucrezia Borgia sul palcoscenico del Maggio Musicale Fiorentino, a distanza di quarantacinque anni dall’ultima rappresentazione: forte è il desiderio di riscoprire un Donizetti sospeso tra belcanto e dramma nero, tra virtuosismo e corrosione morale. L’allestimento, coproduzione con il Lirico di Cagliari, ruota attorno al debutto nel ruolo di Jessica Pratt, chiamata a misurarsi con una delle parti più contraddittorie del catalogo donizettiano.
Assente da Firenze dal 1979, l’opera torna al Maggio Musicale con il peso di un titolo che vive ai margini del repertorio, spesso ricordato per i suoi virtuosismi più che per la sostanza drammatica. Eppure, quando debuttò alla Scala nel 1833, rappresentò per Donizetti un passo deciso verso un teatro più cupo, psicologico, segnato da personaggi travolti da un destino che non controllano. Il libretto di Romani, derivato da Hugo, oscillava tra melodramma e tragedia familiare, offrendo al compositore una tavolozza emotiva che va ben oltre il mero belcanto.

Il lavoro di Andrea Bernard emerge come il vero motore drammaturgico della produzione. L’ambientazione nel secondo dopoguerra e il richiamo al clima morale del pontificato di Pio XII creano una Roma plumbea, intrisa di colpa e decoro, in cui l’intimità è sempre controllata da un’autorità invisibile. Efficace il palco rotante, usato come un enorme ingranaggio della memoria, che permette alla regia di costruire una geografia emotiva in movimento. Quando Lucrezia attraversa le porte che si aprono e si richiudono su scorci diversi della sua vita, corridoi, stanze, cappelle, anfratti di colpa e di desiderio, sembra letteralmente inseguita dal proprio passato. Ogni rotazione frantuma il tempo, ogni porta è un ricordo che si riaffaccia, ogni ambiente un giudizio sospeso.
In questo senso l’azione non è solo spostata di epoca: è resa instabile, continuamente scivolante, coerente con una donna che tenta di agguantare il figlio per salvarlo e che invece lo perde a ogni giro del meccanismo scenico. L’immagine finale delle culle rovesciate accentua questa spirale di maternità negata con una forza visiva che resta impressa.

Non tutto funziona allo stesso modo, alcuni simboli si ripetono con eccessiva insistenza, qualche citazione cinematografica (da Todo Modo alla Dolce vita) rischia la saturazione, ma l’impianto generale risulta forte, pensato, funzionale alla musica, e convincente proprio perché capace di creare una connessione emotiva e concettuale tra epoche diverse senza tradire il nucleo dell’opera.
Dopo un inizio un poco prudente, la direzione di Giampaolo Bisanti trova via via un equilibrio convincente tra trasparenza orchestrale e tensione teatrale. La lettura privilegia la lucidità delle linee e il dialogo con il palcoscenico, valorizzando i dettagli strumentali che Donizetti dissemina nei momenti più ambigui della partitura. Ne risulta una direzione solida e coerente, che accompagna bene la lettura registica e permette ai cantanti di muoversi con sicurezza. L’orchestra del Maggio risponde con crescente compattezza, specie nei finali d’atto.

Jessica Pratt firma una prova davvero magistrale con il suo debutto nel ruolo, abbraccia totalmente la parte, la scolpisce, la reinventa senza tradirla, offrendo una Lucrezia di eccezionale coerenza musicale e drammaturgica. Oltre alla tecnica scintillante, con acuti luminosi ma mai esibiti, un’agilità profilate con una pulizia da manuale e un controllo dei filati che diventa strumento espressivo, non ornamento, ritroviamo una costruzione del personaggio davvero unica. La Pratt rinuncia deliberatamente alla tinta più scura o corrusca tipica del ruolo, sostituendola con una tragicità di luce, di abbandono, di dolore sincero. La sua Lucrezia non è un mostro né una femme fatale, ma una madre consapevole della propria colpa, una donna che tenta disperatamente di riscattarsi. “Com’è bello” ha una purezza quasi sospesa; la cabaletta del primo atto è folgorante per precisione; il finale convince per intensità emotiva e per quel modo, sempre rarissimo, di tenere insieme la linea vocale e la verità del gesto. Una prova che da sola vale la serata.

René Barbera offre un Gennaro elegante, di fraseggio nobile, grazie ad una ingenuità luminosa, che contrasta felicemente con l’oscurità del contesto scenico.
Laura Verrecchia delinea un Orsini saldo e autorevole nel brindisi, con omogeneità, presenza scenica, sicurezza nelle agilità. Mirco Palazzi dà peso e autorità ad Alfonso, pur modellato da una regia che lo vuole figura di potere più che antagonista feroce. Solidi e affidabili i comprimari, efficace il coro.
Uno spettacolo che non solo riporta Donizetti a Firenze, ma lo rilancia con forza. Lunghi applausi per la seconda recita.














