
[rating=2] Nell’argot parigino cioè nello slang, che manco a farlo apposta è pure il nome del teatro che ha ospitato la piéce e che vuole designare un linguaggio chiuso, quasi criptico, la cui comprensione, preclusa ai più, è riservata ad un gruppo specifico di parlanti, la parola “piaf” vuol dire passerotto e fu proprio questo il nome con cui Edith fu conosciuta al mondo come la più grande voce francese.
Nata da una prostituta e un contorsionista, in circostanze semi-leggendarie al civico 72 di Rue Belville e consacrata già piccolissima al mondo dell’arte, con un’esecuzione improvvisata della Marsigliese, mentre suo padre si infilava i piedi sulle spalle per pochi spicci, Edith, nata Giovanna Gassion, diventava “il passerotto” ancor prima dell’incontro con i suoi mecenate: Louis Leplée e Raymond Asso, che le insegnarono a modulare quella voce meravigliosa e le sue movenze che, pur goffe, la resero celebre di fronte ad un pubblico che se ne innamorò alle prime note uscite da quell’ ugola unica. Una vita che fu un vero e proprio romanzo, segnato da episodi dolorosi, divertenti, macabri e ancora oggi carichi di un fascino estremo, materia fertile per drammaturghi insomma, peccato che Davide Strava autore e regista di Edith, in scena all’Argot Studio dal 25 al 30 Novembre a Roma, non abbia saputo coglierne le sfumature più interessanti, riuscendo ad offrire agli spettatori solo uno scarno riassunto in prima persona della vita della cantante.
Non c’è storia insomma in questa storia che pure avrebbe avuto molte possibili e belle declinazioni teatrali e invece abbiamo solo in scena un pianista (Ivano Guagnelli, bravo, non c’è che dire) e una Edith Piaf perfettamente imitata da Sarah Biacchi, ma malamente resa drammaturgicamente. La Biacchi ne ha studiato con attenzione i gesti e la postura e ce la restituisce fedele, ma non originale, senza contare che la voce proprio non c’è, forse sui toni bassi pare rassomigliarle, ma in crescendo si perde, si fa “vociona” e sinceramente non mantiene giustizia a quegli acuti che parevano vibrazioni fatate.
Per carità cercare di imitare vocalmente Edith Piaf è impresa ardua, forse per questo cantanti ben più prezzolate hanno abbandonato a monte l’idea, preferendo una declinazione più personale di quelle canzoni indimenticabili: Padam… Padam… Non je ne regrette rien e poi sì quella lì, La vie en Rose che purtroppo o per fortuna la Biacchi non ci ha cantato.
Emozioni mancate insomma, specie per l’Hymne à l’amour un testo che da solo reggerebbe uno spettacolo intero, cantata da una Piaf stanca, invecchiata, con quelle manine splendide mangiate dall’artrite (altro aspetto decisamente lontano dalle mani un poco androgine dell’attrice) dritta in piedi in quel suo storico completo nero, pensando a Marcel Cerdan, il suo grande amore, di cui aveva da poco appreso la morte per incidente aereo, proprio mentre lui tornava prima da lei, amante capricciosa che rivoleva a fianco il suo adorato pugile francese. La compagnia N.O.S. – Nuovo Orizzonte Spettacolo / Progetto U.R.T. della coppia Biacchi-Strava insomma perde la sfida, il lavoro drammaturgico non c’è, la regia è vacante, la protagonista brava, ma non convincente… Quel dommage!