
Missione Homestead II: la nave Avalon (caravella o novella Enterprise) percorre lo Spazio, alla ricerca di un Nuovo Mondo da colonizzare. La Terra è ancora il centro della civiltà, ma l’Umanità cerca di espandere i propri confini verso nuove frontiere. A bordo, un carico speciale: passeggeri. Passengers: oltre 5000 anime, ibernate per 120 anni, vengono cullate dalla danza perpetua di un gioiello della tecnica e della tecnologia. Pronte a sbarcare sul pianeta-avamposto (Homestead II), al momento stabilito. Salvo imprevisti.
Consapevoli del Titanic(o) naufragio, sono solo due individui: un uomo e una donna che, da semplici sognatori, dovranno trasformarsi in obbligati eroi. Un brusco risveglio, in anticipo di quasi 90 anni rispetto al previsto, divertirà il loro cammino e le loro emozioni. Solitudine, smarrimento e disperazione iniziali, troveranno ristoro nella condivisione e nel lusso. Amanti imperfetti, con l’unica (quasi) compagnia di un robot androide (barman di mestiere), lasceranno in eredità ai coloni una vita migliore e piena di rigogliosa speranza.
Diretto dal norvegese Morten Tyldum (candidato all’Oscar nel 2015, come miglior regista per The Imitation Game), il buon soggetto alla base di Passengers si perde in una sceneggiatura deludente.
Buono l’intreccio, buona la costruzione della suspence, carente la risoluzione. Attraverso stratagemmi troppo incoerenti, perfino per un ambito fantascientifico, il film giunge a toccare fatali punte di banalità: porte aperte a caso, rattoppi fulminei, “fumi” nucleari gestiti come fossero una fiamma ossidrica, istantanee assimilazioni di elevate competenze tecniche, repentina resurrezione dei personaggi utili, cinico e insensato abbandono degli inutili.
Gli attori sono pochi, come vorrebbe Aristotele (Poetica), ma la recitazione non brilla per empatia o intensità. Così è soprattutto per Chris Pratt (I Guardiani della Galassia, 2014), che veste i panni del meccanico Jim Preston: il suo volto è prima coperto dalla barba incolta, poi fissato in un’unica espressione di patetico sgomento. Più versatile ed efficace è Jennifer Lawrence, che interpreta la bella e avventurosa scrittrice Aurora Lane, di cui Jim s’innamora perdutamente. Laurence Fishburne (Morpheus di Matrix, per intendersi) incarna un membro dell’equipaggio di nome Gus Mancuso; ma la sua performance è troppo breve perché se ne possano apprezzare sfumature o svettamenti. Allo stesso modo, la presenza di Andy Garcia si riduce ad un muto e rapidissimo cammeo. Buona, invece, la tenuta di Michael Sheen (Frost in Frost/Nixon – Il duello, 2008) nei panni dell’androide Arthur: fissità e minimalismo espressivo, qui, sono richiesti dal ruolo. Lo accompagna la voce di Oreste Baldini, che sceglie toni caldi e rassicuranti, pur conservando preziose venature sarcastiche.
Sul piano semantico, tre elementi ravvivano un poco la riflessione: l’Amore, il Tempo e il Cosmo. Se il primo mantiene l’eterna diade con la Morte e il secondo manifesta la sua relatività, secondo le circostanze e la percezione, il Cosmo è luogo controverso e spettacolare, ambigua e fisica cornice dei paradossi umani. Quasi un Oceano, in cui tuffarsi e perdersi, si presenta maestoso e freddo; infinito, silente, sublime. Incanta e spaventa, separa i naufraghi dal loro sogno e li unisce nella fascinazione. Brulica di stelle e di Vita, ma può annientare tutto in un secondo. Osserva e si lascia osservare, culla e disperde.
Il punto di forza di Passengers sta nella tecnica. Ben orchestrati gli effetti speciali, che raggiungono la massima spettacolarità con la sequenza della perdita di gravità in piscina.

I movimenti della nave e dei personaggi sono armoniosi e fluidi: così li rende la macchina da presa che, percorrendo il perimetro della struttura in senso opposto al suo andare (carrelli avanti e indietro), ne mostra la grandiosità e la potenza.
La fotografia di Rodrigo Prieto (The Wolf of Wall Street, 2013) è algida quanto basta per restituire i materiali metallici e freddi, l’atmosfera rarefatta ed eterea (del Cosmo, come dei vasti spazi interni) e, simbolicamente, il senso di sospensione e solitudine che vivono i due… passengers. Una base bianco-azzurra, che viene squarciata dal fuoco rosso-arancio nei momenti di maggiore drammaticità: lo stupore per l’avvicinarsi di una stella, la minaccia di un’esplosione. Costumi e scenografia sono ben calibrati, nel taglio e nella scelta dei colori; anch’essi partecipi della sospensione fotografica. Fino all’arrivo del verde: la speranza, che riempie quella fredda immensità di fresco brulichio vitale.
La colonna sonora, di Thomas Newman, ritrova i toni metallici e gli echi onirici di Wall-E (2008, sempre di Newmann, con contributi di Peter Gabriel); sa ritmare degnamente la suspence, accompagna discreta il flusso della “quotidianità” e si fa più intensa nel descrivere la maestosa danza della Avalon. La nave, con struttura e movimento a spirale, è dotata di voce (Francesca Fiorentini, nel doppiaggio italiano) per comunicare con equipaggio e passeggieri. Rotea nello Spazio secondo la propria musica interna, in sincronia con quella del Cosmo. Si tratta certamente di un omaggio a 2001: Odissea nello Spazio, ma senza il Valzer di Strauss.
Per tutto il film, infatti, abbondano le citazioni e Stanley Kubrick è il principale riferimento. Come nel caso di Arthur, che, complici costume e illuminazione, richiama Lloyd, il barman di Shining.

Citazioni alte, che non rimediano, però, all’inesorabile caduta della sceneggiatura. Passengers: un film che avrebbe potuto ambire alle 4 stelle, non arriva a guadagnarne 3. Un’occasione persa.