
[rating=5] Una pellicola filosofica quella di Margarethe von Trotta che ricostruisce un interessante spaccato di vita di Hannah Arendt. Barbara Sukova, nei panni della protagonista, attraversa le tappe fondamentali dell’esistenza della pensatrice ebrea tedesca, della sua filosofia, delle sue coraggiose e scomode verità.
Hannah, emigrata negli USA durante il secondo conflitto mondiale, vive a New York, dal 1940, col poeta-filosofo Heinrich Blücher. Dei flashback ci riportano al suo primo vero amore segreto ma quotidianamente manifesto, conosciuto ai corsi universitari della Facoltà di Marburgo: Martin Heidegger. Dalle vicende personali si arriva fino alla condivisione della sua filosofia, di quella libertà di pensiero, di quella coerenza esistenziale che, spesso, la costringe ad una vera e propria “arroganza” intellettuale, incomprensibile ai più.
Il suo pensiero, la sua figura, il suo isolamento, le sue riflessioni, i suoi discorsi, le sue lezioni universitarie sono esaltati dalla ricostruzione filmica che, a sua volta, trae linfa dall’opera della pensatrice “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme”. Ed è da quest’opera, dalla sua base heideggeriana, che nasce il film. L’essenza del suo pensiero è associata al processo di Adolf Eichmann, il criminale nazista esiliato in Argentina, rapito dai Servizi Segreti Israeliani nel 1961 a Buenos Aires, processato e, infine, giustiziato a Gerusalemme.
Hannah segue il processo come inviata speciale della prestigiosa rivista New Yorker e dalla pubblicazione dei suoi primi articoli nasce una controversa polemica storica che contrappone le testimonianze degli ebrei sopravvissuti ai lager nazisti a quella di Hannah, non capendo che la Arendt – privata dal regime dei diritti civili, perseguitata perché ebrea, incarcerata e, infine, costretta ad emigrare negli Stati Uniti, rimanendo apolide dal 1937 al 1951 – considerava Eichmann un semplice burocrate, un non-uomo, un agente del male, un automa capace di compiere autentiche azioni criminali a danno ora di un popolo ora dell’intera umanità.
L’umanità intera si è chiesta e si chiederà perché non ci sia stata in Eichmann una riflessione sulla responsabilità delle proprie azioni, un ascolto della propria coscienza…
Nella sequenza del processo, che alterna momenti originali e autentici in bianco e nero a momenti attuali della realizzazione di Margarethe von Trotta, Eichmann sostiene di aver eseguito degli ordini, di essersi conformato alla volontà storica di Hitler, il gendarme supremo.
E Hannah prende queste sue testimonianze come dato di fatto, come punto chiave del suo riflettere. Non ascolta nessuno, neppure il suo caro amico ebreo che incontra nelle ripetute visite a Gerusalemme, Kurt Blumfeld. Il male per la Arendt non è radicale, bensì è scatenato dall’assenza di radici e di memorie, di pensieri e atti che nascono dal dialogo con se stessi e attraverso i quali si giustificano le azioni. Questa passività, questo vuoto esistenziale è, di per sé, banale ma, allo stesso tempo, sconvolgente perché diventa terreno fertile e, peggio ancora, complice di sistemi autoritari. Questa è la colpa che Hannah attribuisce e rimprovera ai popoli di matrice ebraica, storicamente contestualizzati nel regime nazista.
Ma questa complicità – ed è qui la coerenza della filosofa non recepita dalla critica, dai media, dalla storia, dai docenti, dai rettori universitari statunitensi, europei ed israeliani a lei contemporanei – appartiene all’umanità, a quell’umanità disattenta all’effettiva valenza del male, considerato, troppo spesso, come un qualcosa di banale.
Il male, per la Arendt, è l’inconsapevolezza di cosa possano significare le azioni umane. Ecco perché Eichmann ai suoi occhi è un non-uomo, un addetto al proprio lavoro, un mediocre burocrate. Sorte storica ha voluto che questo lavoro coincidesse con un crimine. Eichmann è, per lei, uno di quegli individui del totalitarismo i cui giudizi consapevoli sono stati annullati per divenire uno dei molti ingranaggi della macchina di sterminio del regime nazista.
Nel film Margarethe von Trotta trasferisce il pensiero della Arendt, dalla ripresa delle affermazioni di Heidegger in “Essere e tempo”, opera nella quale si sostiene che «l’uomo comprende tutte le cose solo comprendendo il proprio essere ma (e questo è capitale) l’essere dell’uomo non è un dato, una cosa tra le cose, come pensa la tradizione “umanista” nella sua dogmaticità ma una domanda», quella domanda che forse è mancata al servo nazista Eichamnn, fino alle obiezioni del suo amico e collega Karl Jasper secondo il quale Eichmann si era reso responsabile, commettendo crimini contro gli ebrei, di attentare a tutta l’umanità, cioè a quel diritto di chiunque ad esistere ed essere diverso dall’altro. Uccidendo gli ebrei, così come qualsiasi altro individuo del pianeta, si nega la possibilità di esistere all’umanità, che è tale solo perché unione di diversità.
E quell’amore segreto per Heidegger non tradisce la visione della Arendt, ben sottolineata nel film. Come lo era stato per Martin, così anche per Hannah l’uomo non è ebreo o greco, razionale o irrazionale: “uomo” è colui che si chiede chi, che cosa, come egli stesso sia. In questa domanda, solo in questa domanda, nasce e sta tutta la dignità dell’uomo. Quella dignità che Eichmann non ha saputo trovare in sé.
Mentre Hannah ci è riuscita, ha voluto indagare e portare alla luce la verità, uno di quei concetti fondanti della storia del pensiero umano che con il suo profilo illumina o adombra tutti gli altri. E da Heidegger, Hannah torna a ritroso a Platone, al “mito della caverna” della Repubblica, alla narrazione della condizione dell’uomo, costretto fin dalla nascita nell’oscurità e, per sua volontà, convertito alla luce del sapere.
Nel processo ad Eichmann, Hannah vuole manifestare alla sua platea di spettatori, lettori, critici, giornalisti, amici e nemici che la verità diventa un carattere che l’essere assume in rapporto all’intelligenza dell’uomo che la conosce. La verità ricercata e portata alla luce dalla Arendt è un evento, è l’accadere stesso dell’essere, perché essere implica l’azzardo e il rischio della caduta, del fallimento e, quindi, della non-verità. Hannah mette in atto la platonica conversione dell’anima alla verità e chiude in modo heideggeriano – di quel Martin Heidegger de “L’essenza della verità” – affermando al mondo intero che essa è un radicale domandare che trasforma dalle fondamenta l’essere.
Il film è un prezioso contributo alla memoria della filosofa ebreo tedesca che esalta l’esistenza di questa testimone consapevole e sensibile agli eventi e alle tragedie del proprio tempo, analizzati con lucido coraggio, grande intuito e forte impegno civile.