Yesus Christo Vogue: la Via Crucis dell’uomo moderno

[rating=5] Non chiamiamolo giovane promessa, perché l’attore catanese Enrico Sortino è ormai una certezza nel nostro panorama teatrale, avendo raggiunto una pregevole maturità espressiva e scenica: le sue interpretazioni prendono il cuore, attanagliano lo stomaco, scuotono la coscienza e pongono interrogativi. Indimenticabili, in particolar modo, quelle in “Battuage” e in“Io, niente con nessunoavevo mai fatto”, che hanno raccolto ampi successi di stampa e pubblico. (leggi l’intervista)

Insieme ai bravissimi Joele Anastasi e Federica Caruba Toscano fa parte della pur giovane, ma affermata, compagnia siciliana Vucciria Teatro e tutti e tre sono in scena nell’accogliente sala Gassman del teatro dell’Orologio, dal 16 al 26 marzo, con “Yesus Christo Vogue”, un’opera scritta e diretta da Joele Anastasi stesso e definita una tragedia (perché si parla di mito e di eroi) impossibile (perché contemporanea) in un atto unico, in cui viene affrontato il dramma dell’uomo di oggi e di cosa egli è diventato, vittima del suo costante delirio di onnipotenza e dell’auto-proclamazione di se stessi, per affermare il “posso fare tutto” come un dio.

Si parla, quindi, dell’inaridimento dei sentimenti, in una società distrutta dall’uomo stesso, incapace ormai di amare, ma si affronta anche l’attuale tema della maternità e dell’importanza di rimanere in vita, come se la natura volesse ricordarci che non siamo identità singole, monadi sperdute,e che un figlio è generato dal corpo della donna, per mezzo dell’uomo.

Yesus Christo Vogue ph Manuela Giusto

Nonostante il titolo non si parla di religione, ma del rapporto che l’uomo ha nei confronti del divino, è piuttosto una riflessione tra finito e infinito , nel tentativo di descrivere un particolare momento del processo di ricerca spirituale: la crisi. La divinità è appunto la grande assente, Dio ha abbandonato il mondo, è morto (parafrasando Nietzsche), ma alla fine attende di essere lavato , purificato per redimere l’uomo con l’amore,quando la nebbia che accoglie all’ingresso in sala si dirada sostituita ormai dalla consapevolezza.

“Yesus Christo Vogue” racconta la solitudine più grande, la certezza di essere gli ultimi esseri umani della terra e si rivela, subito e prepotentemente, undramma denso di contenuti e dal forte impatto scenico, valorizzato da luci e suoni che concorrono a far immergere lo spettatore, quasi in una sorta di panismo, dentro una natura fatta di erba, terra ed acqua. E mentre gli attori recitano quella che sembrerebbe la loro agonia, sullo sfondo uno schermo propone citazioni bibliche ed evangeliche e le stazioni della Via Crucis quasi ad indicare che l’assoluto e il divino lungamente atteso coincide con l’essere umano stesso.

Joele Anastasi incarna le sue coraggiose scelte registiche mostrandosi come un dio sinuoso e svuotato della sua divinità, che assomiglia più a un dio pagano (qui viene in mente il Bacco di Caravaggio) anche se “siamo stati noi a ad aver riposto sulsuo capo la corona che indossa”; Federica Carruba Toscano è nella sua potente e ferina interpretazione la donna violenta, la madre che non vuole diventarlo, incapace di amare, ma nello stesso tempo desidera stringere a sé un figlio.

Lo scenario apocalittico del palco che si presenta al pubblico hauna certa somiglianza con quello del mito di Deucalione e Pirra o del film “The day after”, dove l’umanità, vittima di guerra, violenza e distruzione, si è autoestinta; ma non del tutto, perché restano ,come superstiti di un’umanità corrotta, un uomo e una donna, novelli Adamo ed Eva, coscienti e dolorose solitudini in uno scenario di desolazione totale, schiacciati dal vuoto di un’attesa consapevole che nulla accadrà, dove si sono abbrutiti e disumanizzati, per cui desiderano e bramano la morte, ritenutal’unica via di salvezza e, pur tuttavia, permangono immobilizzati dentro una contraddizione: “per sempre predisposti all’infelicità e incapaci al suicidio”, come ripete a mo’ di cantilena angosciante il dio che beve e mangia svogliatamente nella sua nicchia.

A questo punto resta solo l’amore o forse si è perso e deve essere ritrovato. I personaggi si chiedono di fare l’unica cosa che ha fatto l’uomo per istinto: l’incontro tra l’uomo e la donna e la loro unione, non sono che l’accettazione della condizione umana e l’atto d’amore è il tentativo di sconfiggere la solitudine del singolo; però il loro dramma sta nel riflettere sul senso di creare una nuova vita, un figlio, una nuova solitudine, o quello, invece, di toglierla. Troveranno, allora, una risposta nella sofferenza, perché l’uomo porta il suo dolore sulle spalle (non a caso la scena è dominata da un’imponente croce di legno sul quale si muovono gli attori) ed è il dolore a fare da padrone, perché solo attraverso l’accettazione di esso l’uomo potrà diventare l’eroe di cui abbiamo bisogno. Ed è un messaggio di totale speranza quello proposto alla fine.

Non può sfuggire, inoltre, che in quest’opera c’è anche, indirettamente, una forte critica ai moderni modi (più che mezzi) della comunicazione, che oggi ci fanno credere onnipotenti e al centro del mondo quando in realtà ci condannano alla solitudine ed all’assuefazione, in una sorta di over dose da social, dove i rapporti diminuiscono, perdono spessore e ci spingono, o costringono, a stare in una posizione di comodo per evitare il dolore, ma così in fondo si muore, se non davvero, dentro, per una sorta di suicidio non fisico, ma dell’ego, dell’individualità. E da ciò un ulteriore spunto di riflessione.

Le scene sono di Giulio Villaggio, i costumi Alessandra Muschella, disegno luci di Davide Manca, video e graphic design di Giuseppe Cardaci, gli effetti speciali di Chiara Mariani, per una produzione Progetto Goldstein Teatro Orologio e la co-produzione di Vuccirìa Teatro.

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