Il vuoto intorno alla vita del Gabbiano firmato Tomi Janežič

[rating=4] A quasi 120 anni dalla sua nascita, Il gabbiano di Cechov torna a volare. Lo fa alla Stazione Leopolda di Firenze, grazie all’allestimento della Compagnia del Teatro Nazionale Serbo di Novi Sad, sotto la regia dello sloveno Tomi Janežič, andato in scena in prima nazionale all’interno della XXI edizione di Fabbrica Europa, che ha aperto i battenti nella città gigliata proprio con questa mastodontica produzione.

Un evento-maratona applaudito in tutta Europa, che nelle sette ore di spettacolo in lingua originale (con traduzione in cuffia e rituali pause con tè e biscotti) coinvolge 30 persone tra attori e tecnici, oltre che il pubblico a stretto contatto con gli artisti, fin dentro la scena.

Lo spettacolo si mostra inizialmente come una prova aperta del Gabbiano, dove il regista a bordo scena, dirige gli attori, li interrompe e interagisce con il pubblico, spiegandone i retroscena e amplificandone le emozioni, come la rottura della sedia, metafora dell’animo di Konstantin Gavrilovič Trepliov infranto dalla derisione della madre Arkadina o esclamando “questo non è Cechov” durante una scena corale energica che sovrasta il monologo retorico di Trigorin.

Nel corso della piéce gli atti si susseguono a ritmo di simboliche stagioni. Se i due atti iniziali possono essere paragonati, come colori ed energia, alla primavera e all’estate, i restanti due assumono toni freddi e cupi, autunnali ed invernali, che sfociano nel suicidio di Konstantin Gavrilovič.

Il Gabbiano - regia Tomi Janežič_photo Ilaria Costanzo

Ogni atto si differenzia oltre che dal cambio allestimento, da una sottrazione di intenzioni e movimenti, che raggiungono nel finale l’immobilismo e l’estraneazione degli attori, volti verso la proiezione di loro stessi. Se i quadri iniziali pullulavano di un sottofondo sonoro naturalistico, si finisce con una sordina che rarefà perfino il silente colpo di fucile. Una lenta morte che raggiunge non solo Kostia, bensì tutta la platea.

Su quel palco c’è vita. Una cosa è certa, lo spettacolo di Tomi Janežič non è un’esibizione. Ma bensì vive, dorme e pensa. Gli attori lo abitano disinvolti, fanno respirare il testo cechoviano donandogli la vita.

Cechov scrisse nei suoi Quaderni riferendosi al Gabbiano: “Nella piéce bisogna rappresentare la vita non quale essa è e non quale dovrebbe essere, ma così come appare nei sogni”. La vita che circola nel Gabbiano, liberissima nelle sue rigide impalcature drammatiche, è il ricordo di un sogno. Anche il tempo è quello di un sogno, immobile e crepuscolare.

Il Gabbiano - regia Tomi Janežič_photo Ilaria Costanzo

Si dice che nei drammi di Cechov non succeda nulla, al contrario nel Gabbiano succede tutto. Nel testo dal sapore shakespeariano vi è la vita intera, fatta di ambizioni, sogni e amori mai corrisposti. Come gli intrecci tra i suoi personaggi, il cui perno, Kostantin, bramando le attenzioni e l’amore della madre Arkadina, troppo impegnata nella carriera d’attrice e d’amante, finisce per innamorarsi di Nina, giovane e fragile attrice, fac-simile materno che come ella cade tra le braccia del noto scrittore Trigorin. Il tormento amletico di Kostantin lo porterà a trovare una sola uscita di scena possibile e al contempo la più teatrale.

La regia di Janežič è introspettiva, minuziosa, a tratti divertente, senza troppi artifici, lontana dalla poetica e dalle trovate che contraddistinsero il Gabbiano firmato Nekrošius, ma interessata quasi esclusivamente a scandagliare il testo e le viscere degli ottimi attori della Compagnia del Teatro Nazionale Serbo. I quali per 16 mesi si sono affidati alla sua guida, raggiungendo un’estrema naturalezza nel portare in scena la voce dell’anima del personaggio. Janežič oltrepassa la recitazione e l’interpretazione, donando al pubblico, seduto al fianco degli attori, una materia pulsante. Tutto quello che avviene è più unico di sempre, lo spettatore ha la possibilità di respirare il compiersi del dramma, che entra così a far parte della propria esperienza.

Il Gabbiano - regia Tomi Janežič_photo Ilaria Costanzo

Le luci e l’allestimento sono coerenti con la messinscena e trasportano il pubblico all’interno delle “quattro stagioni della vita”. Più carente la parte musicale con inserti dal vivo spesso slegati e ridondanti. Eccellente il cast di attori della Compagnia che indossa come una seconda pelle il carattere, le angosce e i pensieri più segreti dei personaggi della piéce, concedendo respiro e ritmo cardiaco alle battute, con cambio di stati d’animo naturali e coinvolgenti. Tra le azioni corali resta impressa la meravigliosa scena che vede gli attori trasformarsi in cavalli e correre intorno ad un albero con straordinaria energia.

Lo sciogliersi dell’azione scenica, con il conseguente calo di ritmo, rallenta un finale affidato a una lunga proiezione video del dialogo antecedente avvenuto tra Kostantin e Nina. Un flashback, esperimento di cinema nel teatro, che oltre a mostrare il metodo usato da Janežič con gli attori, si protrae eccessivamente, affievolendo l’attenzione della platea rimasta vigile durante le sette ore di rappresentazione. Una scivolata che toglie in parte il sapore toccante del finale d’opera, ma che non scalfisce il valore di una performance della quale ci ricorderemo.

Il gabbiano di Cechov rimane un testo immortale, dalla struggente bellezza e dalle infinite letture, in cui i silenzi superano le parole e le tensioni emotive serpeggiano a fior di pelle, pronte a scattare, a tacere, a soccombere. È un tour in divenire tra le rovine dell’amore, dal quale affiora come nell’oggi un infinito senso di vuoto e di solitudine.

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