
Per la rassegna Infanzia e città, arriva a Pistoia Emma Dante con La Scortecata, rivisitazione vagamente kitsch di uno dei racconti de Lo cunto de li cunti – celebre raccolta secentesca di Giambattista Basile.
Forse il lato noir e macabro della fonte letteraria è smorzato per accentuare gli aspetti più melodrammatici, volgari, patetici della fiaba.
Non vogliono rinunciare all’amore, le due vecchie protagoniste. Si succhiano il mignolo ogni giorno per renderlo liscio liscio, dalla pelle splendida, per ingannare il re (e per dare allo spettacolo una venatura di simbolismo erotico). Chi delle due zitelle meriterà di tentare la fortuna in quest’impresa studiata nei minimi dettagli: mostrare il dito dal buco della serratura e fissare un incontro al buio con l’oggetto del desiderio? Ma non prima di aver stirato le grinze del corpo, non prima di essersi scannate e rinfacciate di tutto, non prima di ammettere ancora una volta di dipendere l’una dall’altra, per smezzare quella misera, tragicomica follia. Nella riscrittura a opera di Emma Dante e del marito, si vede il gusto per il dialogo melodrammatico e psicologico, che non sempre spicca il volo o striscia nelle tenebre dell’animo umano.
Continua il gusto del voluto minimalismo estetico con la scena semi vuota – un paio di sedie, il castello di plastica in miniatura, l’anta di una porta, una parrucca rossa, un bell’abito. Ma la magia non si crea a pieno, a discapito del kitsch (calze, sottovesti, coroncine ecc.). C’è la scintilla invece nei momenti musicali, quelli di pura liberazione di immagini elettriche, sull’onda di una scelta melodica impeccabile, rigorosamente partenopea.
L’aspetto mostruoso delle due vecchie sorelle recluse in una catapecchia, è affidato a interpreti maschili, che recitano in un napoletano fluido, popolare (anche se carente, talvolta, di variazioni, modulazioni). La scelta di due uomini che incarnino le disperate protagoniste, impone ai due attori posture innaturali, scimmiesche, da caricatura. La ridondanza goffa dei movimenti rende suggestive alcune scene e ne indebolisce altre – affogate da un diluvio di gesti e parole.
Il pubblico ride, sì, anche se a volte sembra una forzatura. Arriva il brivido, quello inconfondibile che il teatro riesce a provocare, sul finire della messinscena, quando una delle due sorelle implora l’altra di scortecarla con un coltellaccio, per tirare via quella bruttura, quella pelle morta.
Non si prova l’effetto che danno le fiabe, di ripugnanza e orrore, ma una punta di pietà per le due protagoniste, apparse umane e sconfitte in quell’attimo umido di lacrime e sudore. Nessun principe azzurro a salvarle. Non “senza un finale che faccia male“.