Una culla (anzi una madre) sbagliata, all’Altrove Studio

Ottavia Bianchi porta in scena la versione teatrale del bestseller di Jeanette Winterson "Perchè essere felice quando puoi essere normale?"

Ottavia Bianchi e Loredana Piedimonte in "Una culla sbagliata" in scena all'Altrove Studio di Roma dal 10 al 12 gennaio 2025.
Ottavia Bianchi e Loredana Piedimonte in "Una culla sbagliata" in scena all'Altrove Studio di Roma dal 10 al 12 gennaio 2025.

Prima di tutto devo fare delle ammissioni che potranno forse in parte “giustificare” il contenuto di questa recensione. La prima è che non conoscevo Jeanette Winterson. La seconda è che nonostante cerchi di liberarmene, conservo sovente un pregiudizio verso gli spettacoli “tutti fatti in casa”. Mi spiego meglio. Quando leggo lo stesso nome sulla locandina almeno tre volte, un poco mi viene da storcere il naso. Questo non perché non abbia fiducia in doti artistiche poliedriche di un unico soggetto creativo. Tutto il contrario anzi, ma sono pure convinta che uno spettacolo, specie dal punto di vista registico, ha bisogno di uno sguardo fuori scena.

Eh ma allora nessun regista/autore può recitare nella sua pièce? Può eccome, però deve essere piuttosto ben allenato. A mio modesto avviso, per esserlo, deve aver visto tanti ma taaaanti spettacoli. Di altri. Ma soprattutto continuare a farlo con costanza e dedizione per tutta la vita. In una parola: confrontarsi. Cosa che purtroppo anche per mere ragioni economiche, quando parliamo di spazi piccoli, i direttori artistici non fanno. Quantomeno non lo fanno in misura sensibile, statisticamente rilevante. Insomma vedere tre spettacoli l’anno, quasi sempre di amici, non mi fa testo ecco. Non parliamo poi dei direttori big, che lo scouting su piazza se lo so’ scordato da quel dì.

Detto ciò. La visione di Una culla sbagliata, in scena all’Altrove Studio di Roma dal 10 al 12 gennaio, scritto, interpretato e diretto da Ottavia Bianchi (la regia è firmata anche da Giorgio Latini e i due sono appunto co-direttori dell’Altrove) mi ha provocato sentimenti contrastanti. L’Altrove è un teatro dove mi fa sempre piacere andare, con uno staff incredibile, attento e presente. In più con una programmazione che, aldilà del gusto personale, va alla ricerca appunto di un “altrove” di bellezza ed entusiasmo, lontano dalle logiche del mainstream. Un’isola felice dove trovare spettacoli incredibili, anche di artisti internazionali (cosa nient’affatto scontata in un teatro sotto i cento posti) e che dedica ogni anno uno spazio alla drammaturgia contemporanea con il premio Prosit!

Insomma ce l’ha tutte le carte in regola. Per questo recensire Una culla sbagliata, che comunque, giova dirlo, ha fatto sempre il pienone, in maniera non del tutto positiva, un po’ mi fa sanguinare il cuore. Devo tuttavia dar voce a quello che sento, in maniera maldestramente audace, ma sempre più di altri che si limitano al mi è piaciuto/non mi è piaciuto che, detto fra noi, non è critica teatrale. Ma procediamo con ordine.

La vicenda è incentrata sul mémoir autobiografico di una pluripremiata scrittrice inglese: Jeanette Winterson, di cui sopra. Perchè essere felice se puoi essere normale? Un titolo che già in nuce in fondo raccoglie quello che può essere stata l’infanzia di una ragazzina adottata nel Lancashire negli anni ’60, da una religiosissima famiglia di fede pentecostale. Non avendo il tempo materiale per acculturarmi sulla produzione omnia della Winterson, ho letto tutto il leggibile online in 48h. E visto in lingua originale il film televisivo uscito negli anni ’90 Non ci sono solo le arance, tratto dal suo primo romanzo.

Una scena da "Una culla sbagliata" all'Atrove Studio di Roma.
Una scena da “Una culla sbagliata” all’Atrove Studio di Roma.

Ne emerge un quadro dolente. Ma anche ironico e profondissimo sul concetto di identità e sul rapporto materno. Una madre quella della Winterson, che può degnamente essere ascritta fra le figure letterarie più controverse in assoluto. La madre della protagonista tanto del romanzo quanto della pièce adattata da Ottavia Bianchi, è infatti una donna completamente pazza. Ossessionata dalla fede, cresce la figlia adottiva nella ferma decisione di farne una missionaria. A tal fine le brucia i libri, la costringe a una vita di preghiera e le impone perfino l’esorcismo. Per liberarla, manco a dirlo, dal’influsso del diavolo che l’aveva strappata dalla cattolica progenie etero.

Il risultato non poteva che essere contrario alle aspettative. Jeanette dopo aver fatto coming out a 16 anni, prenderà la via della fuga. Prima verso Oxford e poi a Londra, dove diverrà una scrittrice di successo.

Lo spettacolo prende le mosse da questo substrato biografico per raccontare il ritorno di Jeanette adulta (incarnata da una sempre splendida Loredana Piedimonte) nella casa materna. La madre ormai è morta, ma ancora terribilmente presente in ogni anfratto della casa. La visita inattesa di una giornalista (interpretata da Ottavia Bianchi, che veste anche i panni della madre) la riporterà indietro nel tempo, ai ricordi di quell’infanzia negata, vuota di abbracci e carezze. È qui che si presenta, nello spettacolo, il primo problema: i flashback. Sono visivamente tagliati con un’accetta da boscaioiolo e staccano in maniera nettissima il tempo del presente da quello del ricordo. L’effetto è quasi uno schiaffeggiamento dello spettatore.

Il passaggio insomma non è fluido e risulta quasi come un picco d’onda d’urto, che spacca il narrato più che accompagnarlo. Personalmente l’ho trovato poco efficace. Peccato, perchè in realtà lo spettacolo ha un grandissimo ritmo, che tiene sempre alta l’attenzione e questi spasmi temporali registicamente sottolineati (anche dalla stessa interpretazione della Bianchi) in qualche modo me lo hanno disturbato. Secondo problema: l’adattamento. Non avendo letto il testo originale, posso solo basarmi sulle sensazioni da spettatrice e quelle purtroppo hanno mancato l’appuntamento emotivo.

La costruzione drammaturgica della Bianchi è come rimasta in superficie, senza cogliere l’occasione di raccontare anche qualcosa di personale, di più profondo, a cui riannodare la vicenda della Winterson per restituirla al pubblico in tutta la sua autenticità. La scrittura è tecnicamente giusta, solo che non arriva, non fino in fondo, oscillando pericolosamente sull’esercizio di stile. Terzo e giuro ultimo problema: la madre. O meglio il taglio del personaggio che è stato dato da Ottavia Bianchi. Una madre tracotante, urlante, che rompe in ogni momento i margini, rischiando di tracciare un profilo più che grottesco, al limite del macchiettistico.

Devo però qui spezzare una lancia in favore della Bianchi stessa, dopo averla, mi perdoni, così fustigata. Nel film citato all’incipit dell’articolo, Non esistono solo le arance, il ruolo della madre fu affidato a Geraldine McEwan. Da noi è famosa per aver vestito i panni di Miss Marple nella serie televisiva tratta dai romanzi della Christie. In Italia la doppiava Lorenza Biella e dunque aldilà dell’eccentricità intrinseca dell’anziana investigatrice amante del lavoro a maglia, del birdwatching e ça va sans dire del teatro, ci siamo persi la vocetta stridulissima dell’interprete originale. In Non ci sono solo le arance la voce fa la sua parte e accompagna il profilo di una madre evidentemente eccessiva in tutto, ma con una compostezza very british da renderla ancora più psycho.

Forse la fonte interpretativa per la Bianchi è stata questa e in tale luce potrebbe avere avuto un senso la scelta di rendere spiccate nella madre le caratteristiche più teatralmente borderline, prive però ahinoi di quel contegno e di quel timbro così unico. La Bianchi è ottima cantante e al più offre qui e lì momenti di canto ben impostati, che però non posso affermare provengano dal testo originale, o messi un po’ lì per sottolineare anche questa sua skill.

Devo tuttavia in coda spendere due parole di puro elogio per l’interpretazione di Loredana Piedimonte. La sua Jeanette è piena di sfumature, dettagli, intensità che lasciano lo spettatore attraversarne la parabola umana in tutta la sua pienezza. Se ne coglie il delicato e soffertissimo passaggio dall’infanzia all’adolescenza e poi all’età adulta, quando costretta a confrontarsi col proprio passato, ne scoprirà ancora aperta la ferita. Straordinaria. Brilla come una stella nel buio.

Insomma Una culla sbagliata per tirare le somme è un buon prodotto, sicuramente ben scritto, in parte ben interpretato, ma che a mio personal sentore necessiterebbe di una limatura, per innalzarlo al lirismo che può e deve toccare e che in questa occasione almeno per me è rimasto fuori l’uscio del teatro. Chioso però ricordando ancora che, in ogni caso tre date su tre hanno riempito l’Altrove e tutto questo papiro di perplessità e critiche in eventuali repliche con gli stessi numeri potrà e sarà bellamente dribblato… È il pubblico a essere sempre e comunque sovrano!