
Si ripropone al Teatro San Carlo di Napoli, dal 19 al 31 gennaio, Don Carlo – nell’allestimento che aveva inaugurato la Stagione nel 2022 – forse il più complesso ed enigmatico dei lavori di Giuseppe Verdi che, ultimata La forza del destino, rappresentata al Teatro Imperiale di San Pietroburgo nel 1862, nel luglio del 1865 si incontrò a Sant’Agata col suo editore francese Léon Escudier riguardo alla possibilità di realizzare, in occasione dell’Esposizione Universale del 1867, un grand opéra: l’editore portava con sé diverse proposte, il tanto vagheggiato e mai realizzato Re Lear, una Cleopatra e un Don Carlos, tratto da Schiller.
A quest’ultima idea Verdi si appassionò, tanto da scrivere in seguito a Perrin, il Direttore dell’Opéra osservando come fosse “ottima l’idea di far apparire Carlo Quinto, come è ottima la scena di Fontainbleau [sic]. A me piacerebbe, come in Schiller, una piccola scena tra Filippo e l’Inquisitore; e questo cieco e vecchissimo […]. Amerei inoltre un Duo tra Filippo e Posa”. Verdi individua dunque in due parola alcuni punti che poi si riveleranno ciò su cui si appoggia l’intera impalcatura dell’opera.
Di qui comincia un’avventura che durerà all’incirca vent’anni tra scritture e ripensamenti e versioni tra Francia e Italia: la sera dell’11 marzo 1867 andò comunque in scena all’Opéra, con un’accoglienza tutto sommato favorevole di fronte tuttavia ad un pubblico disorientato. Lo spaesamento riguardava certamente la struttura drammatica, molto complessa e articolata che, come in Schiller, si svolgeva, incrociando il piano politico e quello sentimentale e privato, con diverse situazioni conflittuali.
E poi non c’erano più i buoni da una parte e i cattivi dall’altra, lo scavo psicologico è tale da condurre inevitabilmente a perdita delle certezze, espressione di un relativismo estremamente moderno nel giudizio del bene e del male, fino ad annullare le convenzioni tipiche del melodramma italiano. Certo, Don Carlo è opera complessa, forse la più sofisticata e raffinata tra quelle composte dal Maestro di Busseto, non solo dal punto di vista drammaturgico e scenografico ma anche e, forse sorprendentemente, dal punto di vista musicale, a partire dalle quattro versioni: la première parigina del 1867, la versione napoletana del 1872, la riduzione in quattro atti della Scala del 1883 e la nuova versione in cinque atti ma senza balletto di Modena del 1886, che poi è quella in scena qui al San Carlo in questi giorni, poco adusa alle italiche scene.
Ma poi occorre considerare che Verdi, vista la precedente esperienza col grand opéra parigino, quei Vêpres siciliennes del 1855, non esattamente felice, lavorò senza preoccuparsi per nulla della lunghezza che l’opera andava via via assumendo, costringendosi successivamente a tagliare e tagliare e tagliare e poi modificare e modificare. Tutto il materiale scartato è stato tuttavia conservato e a volte presenta eccezionale interesse, come il coro introduttivo del primo atto, non contemplato in nessuna delle quattro versioni di cui abbiamo detto.
Così il testo schilleriano, in cui Giuseppe Mazzini vedeva l’esempio politicamente compiuto di un dramma che congiunga alla esposizione d’un fatto la manifestazione del principio morale a cui deve paragonarsi l’idea sgorgante dal fatto stesso, individua tre ordini di simboli e personaggi, propri anche del melodramma verdiano: quello inerente il fatto storico (Filippo, Carlo, Elisabetta), quello sintomatico di un certo modo d’intendere il potere e l’epoca, con il suo carico di orgoglio, superstizione, fanatismo (Eboli, Inquisitore), e infine quello che rappresenta il principio del diritto e della ragione (Rodrigo di Posa).
Claus Guth – e Marcelo Persch-Buscaino che riprende la sua regia – fa di questa incandescente complessità una tragedia dello spirito che si riverbera nella carne e nel sangue dei personaggi, che rivivono come in una delirante allucinazione di fronte allo sguardo visionario del protagonista: si rinvia, per una completa trattazione della messa in scena alla recensione pubblicata il 5 dicembre 2022 su questa stessa rivista. Qui basti dire che mi sono reimmerso in questo universo quasi liquido, assorto in una densa, odorosa mistura d’ombra e presagi, assaporandone, come allora, l’intenso afrore di allarmante ed estraniante coscienza, in perenne attesa di qualcosa che, sempre minacciando il suo arrivo, assumesse tuttavia un carattere liberatorio come la morte al termine di lunga malattia.

Era questo, suppongo, il sentire di Carlo, nella desolata reggia che rifulge d’ori pur nella pesante oscurità, privato, mutilato, evirato del proprio stesso desiderio, del proprio stesso pensiero, del proprio stesso vivere e sperare, che la regia rende ponendo al centro di questa allucinata estasi il ritratto realistico e grottesco che Francisco Goya ne fece ne La Famiglia di Carlo VI, anancastico e claustrofobico spettro della famiglia e, insieme, del potere, nel momento in cui s’infrange, alla fine del primo atto, il delicato sogno d’amore di Carlo ed Elisabetta, immolato sull’altare della realpolitik e della ragion di Stato.
Rimarrà appeso sbilenco sullo sfondo per tutta la durata dell’opera, quel gran ritratto, quasi a chiudere, in modo tragico e obliquo, il cerchio magico dell’indebolimento delle coscienze, dell’amore colpevolizzato agitato dal fantasma edipico, la libidine del dolore traendo maggior piacere dalla consapevolezza, maggior tensione dal sacrificio. Diventerà, nell’atto ultimo, quel gran ritratto, staccato infine dal muro e assicurato a terra, metaforica tomba del Grande Imperatore Carlo, su cui la regina pregherà il suo pianto senza lacrime, viatico per un indefinito al di là, verso un mondo migliore.
Perché se Filippo e Rodrigo sognano imperi e potere, Carlo vive straziato dall’impossibile, il desiderio incestuoso lo annienta e al tempo stesso lo esalta, fino a diventare – e desiderare di esserlo – la prova vivente del fallimento della paternità di Filippo, che è anche certificazione del fallimento del suo potere regale. Accanto a lui, per lui, vive, la Regina, tra ricordi infantili d’una Francia ormai lontana e scolorita e presenti insopportabili in afose stanze che assorbono la luce, protagonista d’una favola malinconica e grigia: se nel primo atto è felice sposa promessa di Carlo, assolutamente deliziosa nella breve stagione d’amore, successivamente ci appare chiusa in una dolorosa crisalide nera che riesce a renderla del tutto opaca, nascondendo le emozioni dietro una corazza gelida di convenzione.
Filippo è forse il più ambiguo e sfuggente e complesso nella ricca galleria dei padri verdiani e da questo punto di vista il regista ne mette in luce contradditorietà e debolezze, in questa storia di padri e di figli in cui l’anaffettività dei sentimenti si identifica perfettamente con l’impersonalità del potere: è Filippo, non Carlo, l’anello debole, figlio che si sforza di esser degno di Carlo Imperatore cercando compenso alla sua debolezza nell’inettitudine – voluta e cercata e incoraggiata – del figlio. Rodrigo, poi, è tutto ciò che Carlo non è – e che forse non vorrebbe essere – l’altra faccia della stessa medaglia, in una inconsapevole e rovinosa reciproca ricerca dell’ideale dell’io, in mancanza d’autentica paternità e figliolanza, mentre Eboli diventa il segno e il simbolo della totale impossibilità d’amare, dell’inestinguibile sensualità che emerge e che viene inevitabilmente e disastrosamente repressa, sfregiando la propria bellezza preparandosi al chiostro e liberandosi d’orpelli e gioielli.
Si susseguono così, nella fantasia stravolta di Carlo alberi senza pace, biancori lattescenti che riverberano solarità troppo lontane per dar calore, veli nuziali strappati, sogni oltremodo distanti per acquistar colore, ricordi ovattati che suggono nostalgia e malinconici abbandoni. Ma se sul piano visivo, concettuale e drammaturgico, l’emozione è pienamente ritrovata e rivissuta e rinnovata, non è certo sempre e costantemente così, purtroppo, sul piano musicale, dove si alternano alti e bassi, luci ed ombre.
Così il Coro, guidato da Fabrizio Cassi, conferma l’impressione positiva di due anni fa, sapendo pienamente incarnare – sia sotto il profilo strettamente musicale che sul piano dell’interpretazione drammaturgica – i mille volti di quel che dà vigore e forza al teatro d’opera, ciò che una volta si chiamavano masse, di volta in volta frati, popolo, damigelle della Regina e gentiluomini del Re, fuori e dentro la scena, un susseguirsi di personaggi utili alla tragedia e alla partitura in modo decisivo.

Allo stesso tempo, tuttavia, la direzione dell’Orchestra, affidata Henrik Nánási, ci è apparsa troppo spesso afflitta da un duplice problema: da un lato la scarsissima attenzione alla calibratura di tempi e modi, per nulla avvertita delle esigenze dei cantanti e con un’interazione non sempre ben soppesata, finiva per avvilire l’equilibrio complessivo tra buca e palcoscenico; d’altro canto l’eccesso di timidezza nella ricerca di personali soluzioni ai problemi della partitura trovava un comodo ma opaco equilibrio in una risaputa e spenta remissività.
In tal modo è mancata, a chi sedeva in platea, la percezione piena della complessità della partitura verdiana, ora pienamente matura, in vivo contrasto, invece, con la densità di quanto avveniva, intanto, sulla scena. Perché poi, sul piano del cast, non è che le cose andassero meglio, in una alternanza continua di chiari e di scuri che è finita per diventare il vero motivo caratterizzante della serata.
Ha dalla sua una innegabile resistenza della voce, Pietro Pretti – del resto già altre volte constatata – nei disperati panni del protagonista: il timbro fresco, d’ottima caratura, rifulge nel primo atto, le scene e le vicende di Fontainebleau così spesso tagliate e così essenziali alla comprensione della storia e dello stato psicologico del personaggio. È, infatti, dalle fioriture di terra di Francia, patria di Elisabetta, e dalla disillusione che deriva dal saperla sposa del padre che nasce il tono ardente e al tempo stesso tormentoso della tragedia, in perenne precario equilibrio tra sanità e follia, delirio e realtà, e da cui dipendono i toni tragici del resto del dramma, coniugando insieme l’impressione di straordinaria facilità del canto sulle note alte col grande riguardo e perfetta comprensione drammaturgica di un personaggio così complesso.
L’attenzione alla parola è risaltata in particolare nell’interpretazione di Rachel Willis-Sørensen, al suo esordio nel Teatro nostro, soprano americano chiamato a incarnare Elisabetta: così, le emozioni del personaggio, dalla trepidazione del primo atto alla risoluta malinconia del quarto, si stagliano con limpido nitore pur con qualche incertezza (e qualche vibrazione sulle note più alte), superata man mano che l’opera cresce, fino al Tu che le vanità convincente e sinceramente applaudito. Lo strumento è di timbro gradevole e l’intonazione curata, anche se qualche acuto manca del dovuto sostegno, e le agilità piacerebbero un po’ più incisive: la tecnica è dunque solida, la presenza scenica notevole, alla fin fine abbiamo visto una buona voce e un’ottima interprete, se pure non una stella di prima grandezza.
Dell’ottimo John Relyea, qui nei pesanti panni di Filippo, non possiamo che ripetere quanto avevamo già notato a proposito della sua straordinaria e più recente interpretazione, qui a Napoli, del Barbablù di Béla Bartók, regalandoci, grazie a un registro molto basso che lo colloca decisamente in un mondo oscuro e buio, una perfetta caratterizzazione: riesce allora, la sua interpretazione, nell’indiscussa potenza della voce, a far risaltare il velluto del colore del suo personaggio, confermandone la capacità di interpretare ruoli complessi e di dominare la scena con autorevolezza, anche in questo caso un maggior carisma farebbe del basso canadese una vera star.
Ed è qualità, il carisma, che pur non ritroviamo nell’Eboli di Varduhi Abrahamyan, mezzosoprano franco-armeno che avevamo già più volte visto qui a Napoli, di cui avevamo apprezzato la voce ricca e la versatilità interpretativa: in questo caso, tuttavia, pur nella formale correttezza della sua interpretazione, sia nella Canzone del velo sia nel Don fatale, manca la definizione della forte ambiguità del personaggio, latita la credibilità nella sua ineffabile doppiezza che ne costituisce l’anima, così perfettamente, invece, coagulata intorno a momenti di così ambiguo e quasi antitetico sentire.
E un sottile velo d’irrisolta ambiguità – non detto, sottaciuto, silenziato e tuttavia presente – dovrebbe caratterizzare pure il personaggio chiave di Rodrigo di Posa, alter ego del Principe, che in fondo ha tutto quel che a lui manca, a partire dalla stima paterna: Gabriele Viviani è un interprete di talento, lo ha dimostrato pure ieri sera, in cui la voce potente e la presenza scenica, così importanti e determinanti per un baritono verdiano, hanno prodotto una prestazione che si situa ben oltre la sufficienza, almeno per chi sedeva in platea, mancando per l’appunto solo quel quid di leggera, appena avvertibile obliquità che dovrebbe caratterizzare l’amico ardente di Carlo.
Probabilmente, e questo vale per tutti, al netto delle importanti défaillance della direzione orchestrale, di cui abbiamo dato conto, non ha giovato il confronto con lo stesso allestimento di Don Carlo, visto da troppo poco tempo, con altro cast: al di là del confronto sul valore degli interpreti, sempre antipatico e fuori luogo, è tuttavia vero che chi guardava aveva probabilmente in mente – meglio, negli occhi e nel cuore – quel canto e quelle voci, quei gesti e quelle espressioni. Tutto questo per dire che, in ogni caso, la riflessione su quanto visto stasera, proprio per la coscienza che avevamo del precedente allestimento, non ha subito, da quella memoria, alcun condizionamento che abbia potuto riflettersi sul giudizio nostro e del pubblico che ha tributato comunque applausi – e qualche immancabile dissenso per direzione e regia – alla fine.