
Che Alberto Fumagalli della compagnia Les Moustaches fosse una penna mi era già stato chiaro dai tempi di Ciccio Speranza. Opera vincitrice del Roma Fringe Festival 2020, con cui la mia compagnia un anno prima aveva condiviso le semifinali del premio Scenario. Il primo incontro fu proprio in quell’occasione, nel 2019, allo Spazio Diamante di Roma. Il mio progetto si fermò ai quarti, i Les Moustaches arrivarono invece in finale. Si sarebbero rifatti poi appunto col Fringe e nel 2023 col premio Hystrio per Iceberg. Vi risparmio invece l’evidentemente triste brevità della mia carriera registica. Anni dopo (esattamente un anno fa) recensii nuovamente qui su Fermata Spettacolo I cuori battono nelle uova, un bel pezzo dedicato alla maternità, altro tema artisicamente condiviso.
Quest’anno ritrovo Fumagalli con un asset completamente nuovo, al Teatro Lo Spazio di Roma. Qui ho assistito lo scorso 21 gennaio a Qualcosa che per comodità chiameremo amore. Un format che mescola la musica dal vivo del cantautore-attore Antonio Muro in arte Minollo e la poesia ibridata di stand-up comedy di Alberto Fumagalli. Questa volta in veste di performer. La serata è stata una graditissima sorpresa. Oggetto di un’oretta di poesia, battute e note indie-pop è, manco a dirlo, l’amore. La verità vi prego sull’amore… Non la sa nessuno e forse giocarci su è l’unico modo per esorcizzarne la paura. Paura che inizi, finisca, che si confonda col sesso, la malinconia, l’attesa.
Fumagalli salta agile sulle melodie di Muro, ironizzando su se stesso, noi tutti, culi e cuori facili da scambiare, aranciate amare, amori sublimati fra banane e surgelati in un supermercato. Nel mezzo Frozen, Che fine ha fatto Carmen San Diego, varie ed eventuali distrazioni da millennials rimestate con la Carrà e Gino Paoli. E poi la musica di Minollo che stupisce tutti con “Gennaio l’anno più lungo del mese”… Come dargli torto? Tutto funziona meravigliosamente e mentre ce ne stiamo seduti a goderci la performance davanti a un calice o una birra (inclusi nel prezzo dello spettacolo), leggiamo in fondo in quelle poesie talvolta ironiche, talaltre liriche, qualcosa che ci appartiene. Chi dopotutto non si sente chiamato in causa in fatto d’amore? Negato, arreso, deluso, villipeso… Torniamo sempre lì.
Fumagalli traccia un flusso poetico stregante, dove l’amore è raccontato multiforme, onirico, terrigno, è ora un treno che incontra una rotaia, poi un bacio che vola o sbanda nel vento (la poesia più bella), o ancora una molesta richiesta di salvezza che non potremo assolvere… Non ci resta allora che evitare i ritornelli di Alessandra Amoroso… Insomma Qualcosa che per comodità chiameremo amore è una piccola genialata romantica e divertente che un po’ mi ha ricordato Guido Catalano, dove fra l’altro Antonio Muro innesta un apparato melodico interessante con un paio di brani da scoprire su Spotify.
La strana ma efficace creatura poetico-musicale replica ancora al Teatro Lo Spazio 4 e 5 gennaio e 4 e 5 marzo, io probabilmente bisserò. Bravi!