
Era il 1988 quando Bernard-Marie Koltès, già riconosciuto come una delle voci più originali del teatro contemporaneo, iniziò a scrivere Roberto Zucco. Sarebbe stato il suo ultimo capolavoro, un testamento teatrale che racconta, con la crudezza e la poesia tipiche del suo stile, la vicenda reale del pluriomicida italiano Roberto Succo. Koltès, sempre attratto dalle periferie esistenziali e dagli interrogativi morali, vide in questa storia non solo il ritratto di un giovane assassino, ma un simbolo delle contraddizioni e delle violenze nascoste nelle pieghe della società. La prima rappresentazione, avvenuta postuma nel 1990 a Berlino, sotto la regia di Peter Stein, segnò un momento epocale per il teatro contemporaneo, portando l’opera, con il suo valore profondamente provocatorio, al centro del dibattito culturale. Ancora oggi Roberto Zucco continua a rispecchiare le ombre dell’umanità, interrogandosi sulla natura del male, sull’alienazione e sulla fragilità in un ritratto impietoso e commovente di un antieroe, ai margini della società.

La drammaturgia di Roberto Zucco si presenta come un viaggio frammentato e visionario, dove Koltès intreccia la crudezza dei fatti reali con una poetica quasi epica. Il testo si snoda in una serie di quadri che raccontano le fughe e gli incontri del protagonista, in bilico tra il mito e la cronaca, la denuncia sociale e l’indagine esistenziale. Tra i punti di forza dell’opera c’è la capacità di trasformare un personaggio come Zucco, ispirato a un criminale reale, in una figura universale, che incarna la violenza e la solitudine di un’umanità allo sbando.
Nella messa in scena di Giorgina Pi, vista al Teatro Fabbricone di Prato, Roberto Zucco prende vita in una dimensione visiva e narrativa che amplifica le tensioni e i contrasti del testo di Koltès. L’adattamento e la regia si immergono bene nei toni cupi e lirici dell’opera, restituendone la brutalità e la poetica.

Un allestimento che si distingue per un uso evocativo delle luci e per una scenografia minimalista, dall’estetica decadente e marginale, ma simbolicamente potente.
I colori saturi, che spaziano tra il rosso acceso e il blu profondo, avvolgono la scena, sottolineando la tensione emotiva e la drammaticità delle situazioni, creando un’atmosfera sospesa tra sogno e incubo.
Lo spazio è costantemente diviso in due ambienti distinti, separati da barriere visive e concettuali, come un taglio di luce tra la nebbia che alberga la scena, una scelta elegante che amplifica la tensione e suggerisce l’incomunicabilità tra i diversi “mondi” esistenziali dei personaggi, in bilico tra intimità e alienazione.
Così, tra toni cupi e disperati, personaggi alla deriva, luci a neon, atmosfere claustrofobiche, proiezioni, fumo e nebbia, emergono i momenti di inquietante bellezza che Koltès dissemina nel testo. Come la scena tra Zucco e la Ragazzina nascosti sotto il tavolo, che richiama l’intimità segreta di Romeo e Giulietta. Parole sussurrate che evocano un’eco shakespeariana.

Il collettivo Bluemotion, guidato da Giorgina Pi, imprime alla messa in scena di Roberto Zucco la sua cifra distintiva, fondata su una ricerca artistica che unisce sperimentazione linguistica e sensibilità visiva. La performance del protagonista Valentino Mannias, in particolare, si distingue per una recitazione magnetica, capace di esprimere la violenza latente e la fragilità emotiva di Zucco. Il cast corale sostiene questa centralità con una presenza scenica solida e dinamica, incarnando una molteplicità di voci che amplificano i temi del testo e la poetica di Koltès.
Con un adattamento che ne distilla l’essenza, Giorgina Pi riesce a tradurre la tensione tra realismo e astrazione che attraversa il testo, restituendo un mondo in bilico tra cruda violenza e malinconica poesia, fatto di ombre e barlumi di luce, dove le immagini si fanno estensione del linguaggio koltesiano, sospese tra il grido di un’umanità smarrita e il silenzio di un’inevitabile solitudine.