
Anarchici vangeli: “Ma adesso che viene la sera ed il buio mi toglie il dolore dagli occhi
e scivola il sole al di là delle dune a violentare altre notti:
io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore.
Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore”.
(De Andrè, Il testamento di Tito)
Fabrizio De Andrè nelle parole di Don Andrea Gallo, il prete di strada, il partigiano, il fondatore e l’anima della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova.
Due anarchici, due uomini colti e profondamente umani, di quell’umanità che riunisce i valori della sinistra- oggi praticamente semiscomparsa- con quelli del cristianesimo, quello vero, lontano dagli attici dei cardinali, distante anni luce dai falsi moralismi, dai bigotti benpensanti, da chi predica bene standosene distante dai poveri, dagli afflitti, dai diversi, in una parola: dalla strada.
L’escamotage scenico è mostrare don Gallo nell’al di là, in una sorta di limbo, alle prese con l’ombra sovradimensionata di un cardinale, cui rimprovera la sua distanza da chi ha bisogno, la sua lontananza, la sua assenza di comprensione nel suo significato etimologico di cum-prehendere, di tenere insieme, di avvolgere, abbracciare.
Le ombre si muovono su un pannello su cui vengono descritti scenari e dietro al quale dei musicisti, nascosti alla vista del pubblico, eseguono brani di De Andrè, quelli che scaturiscono dai racconti del sacerdote: Un giudice, Via del Campo, La ballata dell’amore cieco.
Sono storie, quelle narrate nelle canzoni del Faber, cui l’uomo di chiesa assiste davvero, nel suo lavoro quotidiano di vicinanza agli ultimi, ai diseredati, agli infelici.
La Chiesa alla domanda: “quando si commette il peccato mortale?” risponde: “Quando ci sono nel contempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso”. “Per me il peccato è assenza di amore. “ (Don Andrea Gallo)
Uno spettacolo originale, interessante, con Michele Riondino nei panni del sacerdote genovese da solo in scena a dialogare con l’ombra dei poteri forti della chiesa: “Certo bisogna farne di strada da una ginnastica d’obbedienza, fino ad un gesto molto più umano che ti dia il senso della violenza, però bisogna farne altrettanta per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni” ( De Andrè)
Una performance forse perfettibile, non esattamente lineare, ma piacevole, interessante e utile a una riflessione sui tempi in cui viviamo, privi di riferimenti certi, ove anche il richiamo dell’anarchia torna a evocare un certo fascino.
Il gran finale è dato dall’aprirsi del fondale del palcoscenico e dal disvelarsi dei musicisti che chiudono con l’esecuzione live di brani del cantautore genovese, anche con Riondino nelle vesti di cantante.
Il teatro Puccini di Firenze gremito e osannante: si respira voglia di poesia, di condivisione, di non cedere ai richiami di pancia, ma a quelli della testa e del cuore.