
«Scusate, non riesco a provare dolore per le morti sconosciute». Con questa prima battuta tagliente Pippo Delbono apre lo spettacolo “La menzogna”, ispirato alla tragedia delle acciaierie della Thyssen-Krupp nelle quali nel 2007 morirono arsi vivi sette operai, e andato in scena nei giorni scorsi al Teatro Fabbricone di Prato.
Un silenzio innaturale avvolge la paltea nel buio più totale della sala. Una luce a neon si accende sopra una porta e svela i contorni di un’impalcatura metallica a diversi piani, panche e armadietti da lavoro: una fabbrica. Uomini e donne entrano in scena uno alla volta, a piedi o in bicicletta, si avvicinano agli armadietti, si tolgono i vestiti “da casa”, si mettono la tuta “da lavoro” e si avviano verso l’apertura che li inghiotte, sul fondo della scena. Gesti abituali, ritmati dalla lentezza della ritualità. Questa sacralità di gesti è rotta dalle proiezioni di due filmati: uno nel quale padre Alex Zanotelli condanna la finanza globalizzatrice e l’iniqua distribuzione della ricchezza nel mondo, l’altro simmetricamente relativo ad un ottimistico spot pubblicitario sullo “sviluppo del futuro” della multinazionale tedesca Thyessen. Successivamente un operaio torna agli armadietti, si toglie la tuta da lavoro, si veste in giacca e cravatta, prende un mazzo di fiori, tutto fa pensare ad un appuntamento galante, invece si distende all’interno dello scheletro di una panca, come in una bara, morto. Da qui in avanti lo spettacolo vira su se stesso, dalla platea scende Delbono, si impomata i capelli e si mette elegante in mezzo a figure mascherate che intanto hanno preso possesso dello spazio scenico. In uno scenario da locale a luci rosse colmo di surrealismo bunueliano, transitano vestiti di scuro uomini, donne e qualche prelato.
Ha inizio così il teatro onirico degli orrori di Delbono, il fascino discreto di una borghesia che danza un incessante tango dell’indifferenza, della menzogna e del profitto senza limite. Sull’eco di musiche emotive, da Michael Galasso a Stravinskij, i personaggi assistono senza nessuna emozione allo spogliarello di una ragazza, si trasformano in lupi feroci che ululano ad una torcia come alla luna e gli armadietti industriali diventano carceri confessionali dove nascondere i propri abusi. Delbono fotografa una quotidianità che si specchia nel cinismo della ricchezza e del potere. In antitesi a questi orrori, un ragazzo down sfugge ai richiami del regista e corre nudo libero miagolando, il dolcissimo sordomuto Bobò stringe le mani degli spettatori e un inverosimile artista di strada tenta di vendere una natura morta ancora incelofanata. Dopo questo breve tenue intervallo, si torna subito alla follia, l’ira di Delbono colpisce le impalcature con un tubo di ferro, facendo rimbombare i colpi metallici in sala e cadere alcuni armadietti. Ricompaiono quindi gli operai, uomini nudi che si agitano fulminei in preda a spietati dolori per poi contrarsi nella morte. E ancora, il monologo di Giulietta, urlato sulle note di Wagner, il denudarsi di Delbono alla ricerca di una purezza perduta, e infine Bobò che in frac accarezza gli armadietti degli operai, come sommo innocente saluto.
«È solo il timore per la propria sorte a generare pietà per le disgrazie altrui» diceva un filosofo greco, tanto che per capire “la menzogna” Pippo Delbono vuol vedere prima la menzogna che sta fuori, per arrivare poi col tempo, a vedere la menzogna più vera, quella che ci portiamo dentro.
Il rogo dell’acciaieria non è che il punto di partenza per un viaggio artistico, politico e simbolico, nel quale Delbono si tramuta in un furente e moderno Caronte pronto a condurre il pubblico tra le viscere e gli orrori sottopelle del nostro sistema infernale.
Questo spettacolo, privo di retorica, è un colpo al ventre dello spettatore, non pronto a guardare se stesso allo specchio, impegnato com’è a mascherare le proprie vergogne. Con un iperrealismo che mostra ogni cosa attraverso il suo volto reale, “La menzogna” mette a nudo l’underground della nostra subdola società, sempre più divisa e frastagliata in solitudini depressive che sfociano nella violenza.
Delbono obbliga gli spettatori a non emozionarsi, a non sentirsi né innalzati, né tranquilli, né tantomeno catarticamente liberati. Sono pugni nello stomaco quelli che riceve la platea, coltellate che scuotono le coscienze letargiche, sazie di piccole buone azioni quotidiane.
Dello spettacolo permane forte il bisogno di fare i conti con se stessi, con i nostri tranquillizzanti meccanismi di sgombero, con il falso moralismo che indirizza e comanda modi di fare e giudizi, e con la nostra abilità di metterci a nudo.
Al tappeto, come un pugile suonato, ci resta solo la forza di un forte e caloroso applauso.